“Three Billboards Outside Ebbing, Missouri” di Martin McDonagh, Usa (Venezia 2017)

La vendetta è un piatto da consumarsi freddo”: il famoso detto non si addice al film di Martin McDonagh, commedia “noir” interpretata magistralmente da Frances McDormand. Mildred è una madre che da pochi mesi ha perso la figlia adolescente, stuprata e uccisa da ignoti. La donna entra subito in scena con lo sguardo truce e l’espressione fredda che l’accompagnerà per tutto il film. E una colonna sonora da far-west. Nella ricerca della verità – e forse della vendetta – non arretrerà davanti a niente. Tre enormi cartelloni pubblicitari inutilizzati ai lati di una strada secondaria le fanno venire l’idea di pagarsi questi spazi per protestare contro l’inettitutine – o l’inerzia – della polizia. A nulla servono i tentativi di farla ragionare: né disagio del figlio, né la rabbia dell’ex-marito e neppure le condizioni di salute dello stimato sceriffo della contea, che le confessa di essere gravemente ammalato, sembrano placare il suo desiderio di ottenere giustizia, in un modo o nell’altro. In realtà Mildred non ha un piano, brancola nel buio, come in un giallo mal scritto, e man mano che la vicenda si complica con eventi sempre più cruenti, diventa sempre più fanatica nel suo girare a vuoto.

Il colpevole non verrà trovato, ma qualcosa alla fine succede: due derelitti, entrambi sopravvissuti a una devastazione, si mettono in viaggio insieme per regolare dei conti…Questa la vicenda.

Cosa rende avvincente il film? Il ritmo, la non prevedibilità, la recitazione della McDormand (da premio) e di Woody Harrelson (lo sceriffo). Quest’ultimo è un personaggio secondario, ma lascia una traccia importante nel film per la sua interpretazione asciutta e dolente. Da una scelta irreversibile dello sceriffo prenderà l’avvio un cambiamento in Mildred, che non potrà più odiare tutti e procedere sul cammino di una vendetta acefala, nutrita da una rabbia sorda e persistente. Ciò che la rende tale non è solo il dolore per la perdita della figlia ma quanto l’ha preceduta: la madre le nega la macchina, la figlia le dice che allora andrà a piedi sperando di essere struprata e la madre glielo augura…

Mildred è una donna ferita, abbandonata dal marito per una ragazza giovanissima, che si trovava nel pieno di un aspro conflitto con una figlia capace di sparare a zero sulla madre come solo gli adolescenti sanno fare…Un rimorso impossibile da sentire è soppiantato da questa rabbia che cresce come un lievito maligno, come se Mildred fosse alla ricerca di un esito fatale anche per se stessa.

Cosa rende interessante questo film? L’intelligenza, la pregnanza e l’umorismo dei dialoghi. Ma anche la rappresentazione della deriva sociale della provincia americana nell’era di Trump ( molto più efficace che in altri film più didascalici, come Suburbicon) e del potere dei media che riescono a rendere le persone vittime o carnefici a loro piacimento toccando le corde del sentimentalismo e della retorica. E infine, la capacità del regista di regalarci personaggi con diverse corde, dove il buono e il cattivo si mescolano continuamente. Il fuoco divampa in molte scene e la catastrofe si avvicina, con il suo potere catarico. Ma ogni tanto qualcuno si riscatta con un gesto gentile e imprevisto, come quello della vittima del poliziotto violento che in ospedale gli offre da bere un’aranciata. Oppure, la natura con la sua bellezza dà una mano, come quando un daino viene a brucare serenamente l’erba accanto ai cartelloni. Forse la vendetta non si compirà…il regista non ce lo fa sapere, come non sappiamo davvero come va a finire la nostra vita in questa età sempre più connotata dall’incertezza.

Una piccola stonatura, che perdoniamo a un film pregevole, è l’entrata in scena di uno sceriffo nero, deciso e incorruttibile, che caccia subito il poliziotto razzista. Bello invece lo sfogo di Mildred contro il sacerdote che visita la sua casa per ridurla alla ragione: se tu prete fai parte di una banda, sei colpevole anche se in quel momento il misfatto lo compie qualcun altro. Il riferimento alla pedofilia è esplicito e gli applausi in sala scattano spontanei.

Adriana Grotta

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FILMGREED16: Evento Speciale per il 150° Anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia

Giovedì 13 ottobre 2016
FILMGREED16: Evento Speciale per il 150° Anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia

Scarica il programma del cinema in pdf

Scarica il volantino della conferenza

Cinema Mignon, Via Martiri della Liberazione, 131, 16043 Chiavari GE

La manifestazione aprirà con un evento speciale la seconda edizione di FILMGREED rassegna di cinema di qualità ad ingresso gratuito a Chiavari. Il 13 ottobre saranno proposti ad ingresso gratuito nel pomeriggio ANIME LAND di Francesco Chiatante e LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT di Gabriele Mainetti. I film del pomeriggio esporranno gli effetti della cultura popolare giapponese (in particolare i cartoni animati degli anni 70 sulle nuove generazioni di registi e documentaristi italiani) in chiusura alle 21.30 sarà proiettato gratuitamente ed in anteprima regionale TOKYO TRIBE di Son Sion su gentile concessione della Tucker Film ed in collaborazione con il Far East Film Festival di Udine.
Questo film rappresenterà il Giappone della cultura popolare contemporanea ed il rapporto fra immagine filmata, musica e fumetto nell’immaginario giapponese.
Evento inserito nelle celebrazioni ufficiali del 150° Anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia.

15.30
ANIMELAND
di Francesco Chiatante, Italia 2015, 93 min.

Un Viaggio tra Manga, Anime e Cosplay attraverso ricordi, aneddoti e sogni di
personaggi degli ambiti più disparati (attori, registi, cantanti, scrittori,
disegnatori, giornalisti, creativi) il cui immaginario e la cui vita sono
stati influenzati da fumetti e cartoni animati. Non un documentario
esclusivamente per gli appassionati ma un vero e proprio spaccato della
società che spesso ancora oggi si intende come “sottocultura”. Fra i tanti
interpreti: Valerio Mastandrea, Paola Cortellesi e Caparezza ma anche Shinya
Tsukamoto, Masami Suda e Yoshiko Watanabe.

17.30
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT
di Gabriele Mainetti, Italia 2015, 118 min.

Enrico Ceccotti entra in contatto con una sostanza radioattiva. A causa di un
incidente scopre di avere un forza sovraumana. Ombroso, introverso e chiuso in
se stesso, Enzo accoglie il dono dei nuovi poteri come una benedizione per la
sua carriera di delinquente. Tutto cambia quando incontra Alessia, convinta
che lui sia l’eroe del famoso cartone animato giapponese Jeeg Robot.

21.30 – PRIMA VISIONE ANTEPRIMA REGIONALE
TOKYO TRIBE
di Sono Sion, Giappone 2014, 116 min.

In un futuro distopico Tokyo è una Babilonia psichedelica di gang rivali che
guerreggiano a colpi di hip hop. Lo scontro è sempre dietro l’angolo e il
delirio aumenta quando Lord Buppa, un boss della malavita dedito al
cannibalismo, decide di rapire la figlia di un sacerdote straniero. Da quel
momento si scatena una lotta anarchica fra la miriade di tribù che popolano i
quartieri della capitale con samurai a bordo di carri armati, punk armati fino
ai denti, riot girls e gangsta rapper. Tratto dal manga di Santa Inoue, Tokyo
Tribe è un viaggio pop che contamina il musical con il pulp e il western con
il softcore, travolgendo lo spettatore in un vortice inarrestabile di
invenzioni e stili.

L’evento proseguirà domenica 19 a Camogli alle 17.00 (Aula Magna Istituto
Tecnico Nautico San Giorgio, via Bettolo 17) con la conferenza:

L’INCREDIBILE STORIA DEL RAPPORTO FRA IL CINEMA GIAPPONESE ED ITALIANO – DALLA
SFIDA DEL SAMURAI A JEEG ROBOT
A cura di Daniele Clementi – Presidente UICC (Unione Italiana Circoli Cinema)
Introducono Chiara Zucchetti e Martina Capuano

La cultura giapponese ha profondamente influenzato il costume collettivo italiano delle ultime generazioni.
Negli anni l’immaginario cinematografico italiano subì fortissime influenze dall’industria cinematografica giapponese grazie ai film di samurai di Akira Kurosawa.
Molte generazioni di italiani hanno imparato a conoscere usi e costumi del Giappone attraverso i cartoni animati ed i fumetti aprendo le porte ad un vero e proprio mercato specialistico, dal canto suo l’Italia ha condizionato l’immaginario iconografico giapponese con i suoi prodotti di genere e le sue mete turistiche. I film western e polizieschi italiani degli anni 70 hanno invaso il mercato giapponese ed ottengono ancora oggi un discreto risultato sul mercato home video.

Dieci anni dopo nasce AKIRA: la rivista digitale di Cinema

akira-001-coverClicca qui per scaricare gratis la rivista

Era il 30 settembre 2006 quando, a cinque anni dalla fondazione del Circolo del Cinema UICC Dodes’ka-den, nasceva il blog dell’associazione. In dieci anni la rete è l’editoria sono molto cambiate e tanti nuovi supporti mediali si sono sviluppati. In occasione dei 15 anni del Circolo del Cinema, dei 65 anni dell’Unione Italiana Circoli Cinema e dei 10 anni del nostro blog abbiamo deciso di creare una nostra rivista digitale di Cinema dedicata al grande maestro giapponese da cui già avevamo preso il nome del Circolo: AKIRA KUROSAWA. Da qualche anno abbiamo cominciato a diffondere la nostra attività di promozione su Facebook attraverso la nostra pagina AKIRA ARTE E CINEMA ed ora abbiamo deciso di unire le risorse del blog e della pagina Facebook in una rivista di cultura digitale cinematografica, un quaderno di cinema che ospiterà recensioni dai principali festival del Cinema internazionali. Il primo numero sarà dedicato al festival di Cannes ed alla Mostra del Cinema di Venezia con i contributi della nostra collaboratrice storica Antonella Mancini, delle “new entries” Adriana Grotta e Silvia Degli Abbati e del presidente della UICC Daniele Clementi.

Buona lettura.

 

“My art” di Laurie Simmons, Usa 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

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Laurie Simmons, fotografa newyorkese di fama internazionale, è regista e interprete del film “My Art” presentato al 73 Festival del Cinema di Venezia nella sezione Cinema nel giardino.

L’artista non è nuova a questo tipo di esperienza. Nel 2006 infatti esordisce alla cinepresa con “The Music of Regret” un musical ambizioso di tre atti che coinvolge musicisti, burattinai professionisti, nonché l’attrice Meryl Streep. Fin da piccola la Simmons è affascinata dal genere teatrale musicale e la realizzazione di questo musical sembra voler trasporre nella realtà i manichini e le bambole da lei utilizzati nelle numerose opere fotografiche che, con il tempo, l’hanno resa celebre in tutta America. Una seconda esperienza avviene nel 2009 quando Laurie Simmons recita nel ruolo della madre-artista della protagonista del film “Tiny Furniture”, il primo lungometraggio diretto dalla figlia Lena Dunham. Invece, in questa successiva esperienza registica di “My Art”, l’autrice riflette sul ruolo dell’artista-donna, sulla passione e la tenacia che spingono a crescere, evolvere e continuare a ‘sublimare’ con l’arte. La protagonista, Ellie Shine, è un’artista newyorkese single, impegnata nell’insegnamento, stimata dai suoi allievi e benvoluta dall’entourage di amici artisti. Tuttavia, arrivata ormai a una fase matura della carriera (Ellie ha piú di sessant’anni), sembra scontenta e delusa di non aver raggiunto la notorietà. E quando una cara amica, artista affermata, le impresta una videocamera e la incoraggia a ritirarsi nella sua villa di campagna per ritrovare quiete e concentrazione, Ellie non si lascia sfuggire l’occasione e affronta con entusiasmo la nuova esperienza. Il luogo magico nonché la conoscenza di Frank, Tom (i giardinieri della villa ed ex attori disoccupati) e l’incontro con John (avvocato disilluso alla ricerca di distrazione) aiuteranno la protagonista a risvegliare entusiasmo e ispirazione. Il rifacimento in chiave ironica di alcune fra le scene più famose della storia del cinema, in cui romanticismo, malinconia ed ironia si mischiano fra di loro, è la parte più esilarante del film. Ma ciò che colpisce e incoraggia di questa storia sono il coraggio e la caparbietá di Ellie che non rinuncia a mettersi in gioco professionalmente, cosí come a rinnamorarsi nonostante l’etá. Apprezzato è anche la scelta del happy end che conferma il raggiungimento del successo per l’artista ma non l’inizio della nuova love story.

Silvia Degli Abbati

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“Boys in the trees” di Nicholas Verso, Australia 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

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Succede tutto in una notte nel film ” Boys in the trees”  del regista australiano Nicholas Verso. Succede che un ragazzo, Corey, diventa uomo attraverso la paura e la sofferenza. Ma anche attraverso il contatto ravvicinato con il femminile, impersonato dalla bella e solida Romany. Il regista  ripesca i suoi ricordi adolescenziali per offrirci una storia intensa e ricca di implicazioni psicologiche  e sociologiche. Il film, ambientato nel 1997, all’alba della diffusione (invasione?) massiccia della rete nella vita dei ragazzi, parla dell’esperienza di un ragazzo di 16 anni, avvenuta in una cittadina della provincia australiana nella notte di Halloween, che si trasforma in una vera propria iniziazione alla vita adulta. Il francese David Le Breton in un libro intitolato “Antropologia del dolore” sostiene che “il dolore inerisce alla vita come contrappunto che dà pienezza al fervore di esistere” e analizza i comportamenti degli adolescenti di oggi paragonandoli ai riti di iniziazione delle società basate su un’organizzazione tribale. Corey appartiene alla gang dei Gromits, capeggiata dal “cinico” Jango e composta da un pugno di ragazzi in cerca di identità e sicurezza e, anche se lui appare da subito più sensibile degli altri, subisce il fascino del capo che stabilisce i comportamenti da adottare e quelli da evitare. Tra questi ultimi vi sono il rispetto dei genitori, la tenerezza verso le donne, l’accettazione del “diverso” di qualunque tipo. Esibirsi, fare i duri, menare le mani con chiunque si metta sulla loro strada, saccheggiare le dispense dei genitori, soprattutto le scorte di alcolici, ostentare la propria “natura” di adolescenti proprio come se questa fosse una condizione eterna,  sono invece le regole non scritte del gruppo. Corey ama la fotografia e la camera oscura e vorrebbe studiarla all’università lasciando gruppo e terra natale, ma questo significherebbe, agli occhi di Jango, immettere una progettualità, e quindi il senso del tempo, all’interno dell’organizzazione sociale della banda, basata sul “qui ed ora”, con il rischio di scardinarla e questo non è possibile. Corey sembra rinunciare alle sue aspirazioni in cambio della sicurezza. Accetta di fotografare le esibizioni in skateboard di Jango e compagni, dove la ricerca del rischio, come lo stesso Le Breton ci ricorda, fa parte del gioco: l’adolescente deve sperimentare da vicino la fragilità di un corpo di cui è finalmente padrone per conquistare il diritto ad esistere nel mondo. Anche questo fa parte dei riti di iniziazione. Ma Corey è costretto a fotografare anche la faccia ammaccata di Jonah, che ha appena incassato un cazzotto da Jango per avergli attraversato la strada involontariamente mentre lui si esibiva vanitosamente sullo skate. Corey non partecipa attivamente allo scherno nei confronti del “diverso” Jonah, ma non si oppone alla diffusione della foto che, fotocopiata in molti esemplari, finisce per tappezzare muri e alberi della cittadina. Se non che, Jonah è stato un suo grande amico quando i due erano bambini e passavano tempo sugli alberi a giocare e fantasticare. E questo è il primo albero che incontriamo nel film e che gli dà il titolo. Altri alberi ci saranno: reali, ricordati o metaforici, tutti grandemente significativi per l’evoluzione della storia. Di cui ora non voglio dire altro, ma solo suggerire. Inizia un viaggio fantastico, magico e – complice la notte di Halloween – pauroso, che Corey affronta con Jonah e infine da solo, ma dopo avere avuto un contatto ravvicinato con Romany che sembra avergli dato il coraggio di continuare, come succedeva agli eroi delle leggende del tempo che fu.

Lo spettatore, come nei film di Tim Burton, deve immergersi e vivere l’esperienza che gli viene presentata, lasciarsi trasportare dall’irrazionale, invadere dal dubbio e dall’incertezza, dalla paura. Solo in questo modo potrà sentire cosa prova Corey e con lui l’adolescente che cerca di uscire da soluzioni facili e rassicuranti e nascere ad un nuovo stato, quello di adulto, senza rinunciare ai sogni, diventati ora anche aspirazioni e progetti.

Un film pregevole e sensibile, in conclusione, che esplora temi che esploderanno nei successivi vent’anni: l’approfondirsi della crisi della società occidentale che complica ulteriormente il passaggio adolescenziale, la dipendenza dalla rete usata anche per sopraffare i più deboli, il bullismo nei confronti dei diversi. Solo qualche appunto. Ci sono passaggi, soprattutto all’inizio, un po’ didascalici, ad esempio quando i ragazzi si definiscono “adolescenti”. Loro non lo fanno mai, a mio parere, mentre, se mai, amano definire gli altri, sia i bambini che gli adulti. E, per ultimo, una considerazione sul finale del film. Lo spettatore ha già capito tutto quello che c’era da capire e ha “sentito” quello che c’era da sentire, anche senza la rassicurazione dell’ultima scena.

Adriana Grotta

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“Brimstone” di Martin Koolhoven, Olanda 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

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Le inaspettate reazioni di critica e pubblico al film Brimstone lasciano perplessi e meritano perciò qualche riflessione, che esula dal film in sé, sui contenuti e sulle loro modalità di trasmissione. Brimstone, co-produzione europea e regia olandese, appartiene al genere western “tardivo”, adatto mirabilmente a fare da contenitore di storie complesse. In tale cornice, le vicende si snoderebbero senza particolari scossoni, assecondando un’evoluzione naturale. I giochi son già fatti sin dall’inizio e in un certo senso tutto è prevedibile. Brimstone non smentisce questo collaudato schema, purtuttavia l’impatto col pubblico alla sua prima uscita indurrebbe a pensare che qualche cosa nello schema non abbia funzionato come doveva.

Sullo sfondo di un West desolato e inospitale, assistiamo alle peripezie di Liz, giovane prostituta costretta a fuggire sin dall’infanzia da un persecutore che, nelle vesti di un Reverendo rigido e crudele (patrigno), la stana ovunque vada per vendicarsi del fatto di essere stato a suo tempo da lei rifiutato. In ognuna delle piccole comunità in cui si insedia Liz rincomincia da capo, con immutata voglia di vivere, ma la violenza del Reverendo non le concede tregua. Liz arriva ad auto-mutilarsi, facendosi tagliare la lingua, per assumere l’identità di una donna morta e salvare così se stessa e la figlia. Ma anche questo non basta a metterla al riparo da ogni sorta di violenza e tortura. Liz è una donna sola – “single” diremmo oggi – esposta a tutte le possibili angherie che un essere considerato inferiore perché donna deve subire. Liz può solo contare sulle proprie forze e sui propri princìpi, senza cedere ai pregiudizi che vedono in lei una minaccia per la comunità. In questo è sostenuta dal suo straordinario coraggio e da un’incrollabile determinazione, qualità queste che il mondo retrivo cui appartiene il Reverendo non è disposto a perdonare in una donna e che, con spaventoso crescendo, la porteranno a soluzioni estreme, pur di salvare la propria dignità e il rispetto di se stessa, essendo ormai certa che la figlia abbia assimilato i suoi valori.

Il film è stato ostracizzato per le scene di violenza <<gratuita>>, <<ai confini dell’horror>> e criticato per un supposto <<eclettismo esasperato e inconcludente>>. Nulla a che ridire sul cast di eccezionale bravura, ma la regia invece è stata ritenuta superficiale e <<disimpegnata>> per come ha trattato gli argomenti del film. Vogliamo fare qualche esempio dei passaggi che potrebbero aver turbato critici e spettatori?

Un elemento di disturbo potrebbe essere considerato quello in cui il Reverendo impone, alla protagonista e alla moglie, l’uso della mordacchia o bavaglio dei muti: una sorta di maschera di ferro dolorosa, risalente al Rinascimento, atta a punire e umiliare il peccatore per la sua tracotanza. Tant’è che la moglie non regge e si impicca. Se qualche addetto ai lavori individuasse in questa parte del film dei motivi di inesattezza o esagerazione, gli basterà andare su Internet alla voce “mordacchia” e troverà la riproduzione di questo strumento di tortura, oltre all’immagine di una litografia che ne mostra diffusione ed uso in New England. La data è 1885.

Ci sarebbe un altro episodio adatto a dividere il pubblico in schieramenti opposti. E’ l’episodio del difficile parto di una donna della comunità in cui Liz si è stabilita da poco e dove lei, Liz, si ritrova a dover fare assistenza, profondendosi generosamente in cure per la madre, ritenuta con maggiori speranze di vita del bambino. Moriranno entrambi e Liz la pagherà ancora una volta, colpevole di avere scelto e deciso lei chi dei due avrebbe dovuto avere la precedenza nelle cure. Visti i risultati, Liz viene accusata di assassinio e di nuovo le toccherà  emigrare.

Ultimo esempio. Verso la fine il Reverendo, dopo aver appiccato il fuoco e distrutto tante case quante quelle abitate da Liz, finisce lui stesso nel fuoco. Mentre brucia, la sua immagine si dissolve per trasformarsi in qualcosa di più simile al Demonio che a un buon cristiano al rogo.

Che cosa hanno in comune questi tre episodi diversissimi tra loro ed estrapolati a caso dal film? Essi ci mostrano come l’odio e il disprezzo per la donne siano capaci di generare impensabili efferatezze, potenziate da un atteggiamento religioso prossimo al fanatismo che nega ogni ricorso alla ragione e al buon senso. Si può subito obiettare che – restando all’ultima edizione veneziana del Festival tutt’ora in corso – questo tipo di tematiche è presente anche in altri film che si sono prodigati in violenze e torture come e più di Brimstone. Valga per tutti Hacksaw Ridge, di Mel Gibson, dove la cinepresa indugia, e sembrerebbe a tratti compiacersi, nel mostrare carni macellate, vite crudamente spezzate, interiora umane che schizzano di qua e di là etc. Ma c’è una differenza, che è forse fondamentale. In Gibson l’orrore e il macabro sono in funzione dell’esaltazione delle virtù del protagonista, il primo obiettore di coscienza della storia, uomo pio dalle radicate convinzioni religiose che vediamo in preghiera almeno un paio di volte. Come dire che il fine giustifica i mezzi. In Brimstone, questa finalità teleologica è del tutto assente e il regista si limita a “registrare” una realtà piena di contraddizioni, non più violenta di come doveva essere stata storicamente quella “vera”. E il regista Koohloven ce la racconta, senza scomodare i grandi eroi. Infatti, a parte le idealizzazioni del Far West come ci siamo abituati a vederle almeno da John Ford in avanti, è lecito immaginare che quel mondo, senza controlli e senza governi, racchiudesse il peggio di quanto è capace di esprimere la natura umana. Un mondo, se non già un’epopea, dove solo il coraggio della disperazione poteva indurre un uomo ad avventurarvisi dentro, abbandonati scrupoli e princìpi. Dunque orrori, violenze, torture sembra che possano andare bene se subordinati a un fine altro, ipocritamente invocato per aggirare l’ostacolo moralista, a patto di configurarsi come l’anello necessario per condannare quanto le stesse violenze hanno prodotto.

Forse  Brimston non passerà alla storia come uno dei migliori cento film da salvare, ma è certo che ha il merito di aver messo a nudo realtà sinora coperte dall’ideologia e dal conformismo, e di raccontarle nel più tradizionale, e perciò nel più efficace, dei modi conosciuti dal cinema: una storia ben ambientata, ben recitata, ben sceneggiata, ben musicata  e bene diretta, immune da critiche di retroguardia e con un messaggio chiaro e univoco.

Antonella Mancini

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“Voyage of Time: Life’s Journey” di Terrence Malick, Usa 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

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L’ultimo film di Terrence Malick, ‘Voyage of Time: Life’s Journey’ in concorso al 73 Festival del Cinema di Venezia, è un inno alla vita, un’invocazione solenne a Madre Natura creatrice dell’uomo e dell’universo. Il film è una sorta di viaggio mentale che tra musiche suggestive (scritte fra l’altro dal bravissimo Ennio Morricone) ed immagini spettacolari diventa quasi ‘un’esperienza extrasensoriale’. Il regista, mescolando sapientemente fotografia reale a innovativi effetti speciali, ricostruisce la cronologia dell’universo, dall’espansione delle galassie (con un esplicito riferimento alla teoria del Big Bang) alla comparsa dell’uomo sulla terra. Malick emoziona e strabilia con un’alternanza continua di immagini per cui si passa dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, dalle nebulose del cosmo a microscopici fenomeni cellulari, dalla profonditá degli abissi marini agli scorci aerei su foreste equatoriali. Ma se l’energia della natura fa scorrere incessantemente la vita, la presenza dell’uomo ha creato squilibrio e stravolto inevitabilmente il pianeta. Il rapporto tra esseri umani, natura e mondo animale è imprescindibile ma va riorganizzato. Malick, attraverso il dialogo tra uomo e madre natura (voce off di Cate Blanchett) pone delle domande esistenziali, puntuali. S’interroga sul pianeta, su cosa ne sará dell’uomo. E se da un lato ricostruisce il nostro ‘passato planetario’ esaltando la magnificenza della natura, dall’altro sembra riflettere sul declino morale dell’uomo e sull’emergenza di preservare il pianeta, l’unico modo per garantire continuità alla vita terrestre.
Personalmente nell’insieme il film è molto suggestivo e di forte impatto visivo. Tuttavia, in questa laboriosa alternanza di immagini scenografiche non sempre è chiaro dove il regista voglia parare e a quale riflessione filosofico-esistenziale aspiri. Probabilmente ognuno di noi è libero di riconoscervi quello che meglio crede: il miracolo divino, la piccolezza dell’uomo o la magnificenza della vita.

Silvia Degli Abbati

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“Dark night” di Tim Sutton, Usa 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

Doppia recensione per il film di Tim Sutton: Adriana Grotta e Silvia Degli Abbati ci scrivono la loro.

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Recensione di Adriana Grotta

“The dark night” ci offre un’ampia panoramica sul tempo (libero?) della gioventù americana, rappresentata attraverso scene della quotidianità che passano lente sotto la macchina da presa. Skateboard, giochetti, chitarre, qualche lavoretto, ginnastica, selfie, videogiochi: tutto scorre in un luogo indefinito, che ci ricorda l’America “senza parole” del pittore Edward Hopper, dove le relazioni sembrano inesistenti. La notte verrà, alla fine del film, e cio’ che succederà in una multisala, dove il destino ha riunito i giovani “spiati” durante il giorno, possiamo solo intuirlo e sarà tremendo. Ecco il dark side di una società di giovani ” normali” che vive “alla giornata” apparentemente senza dare un senso alla propria vita. Tutti i giovani hanno un’espressione indecifrabile, non ci è dato immaginare i loro pensieri. Uno solo di loro, studente, seduto sul divano del suo salotto insieme alla madre, dice qualcosa di sé a un fantomatico intervistatore (psicologo, assistente sociale, giornalista?). Ma continuiamo a capire poco: la nebbia non si dirada. Se Aaron – l’unico con un nome – ha una madre iperprotettiva, per ammissione della stessa, gli altri sembrano vivere in un mondo senza adulti, inconsistenti o assenti. I padri non ci sono, l’unico che compare è abulico e non dice una parola al suo bimbo piccolo. Al posto della funzione “paterna” compare la canna del fucile, attraverso una varietà di armi usate in un tiro a segno, lustrate e preparate con grande cura. E sul viso di uno dei ragazzi, nell’ultima scena del film, compare finalmente un sentimento vitale, una sorta di gioia eccitata nell’attesa di quello che sta per succedere e che riempirà di significato la sua vita, dandogli la notorietà che ha lungamente sognato. E su quegli occhi finalmente vivi si chiude il film, lasciando a noi il compito di immaginare la carneficina prossima ventura. Un film forte, che affronta il tema della disponibilità di armi nella società americana, declinandolo in modo molto diverso dal famoso ” Bowling a Columbine” di Michael Moore. Qui le immagini, le allusioni, le suggestioni, là le parole di denuncia. Qui si vuole arrivare a toccare la sensibilità dello spettatore senza proporre soluzioni. Basterebbe vietare la vendita delle armi, come Obama ha provato a fare con scarso successo, per fare ritrovare a una generazione di Americani il senso della propria esistenza? La risposta non sta in questo film, che si limita a prendere lo spettatore portandolo “dentro” le vite dei ragazzi attraverso immagini – e musiche – potenti, dove cieli, strade, case, alberi e uomini, fanno parte tutti dello stesso paesaggio.

Recensione di Silvia Degli Abbati

Il film, drammatico, è ambientato in una provincia americana e racconta la giornata di 6 persone apparentemente alle prese con la quotidianitá. Vediamo giovani skaters impegnati in acrobazie, sballarsi con le droghe e giocare ai videogames. C’è una ragazza appassionata di fitness, ossessionata dal fisico e dai ‘selfies’. Il timido Aharon, intervistato assieme alla madre da uno specialista, forse perché colpevole di aver commesso un reato che non sappiamo, cerca di spiegare le ragioni del proprio disagio.
L’adulto, quando lo si vede, appare inadeguato al ruolo genitoriale, spesso incapace di comunicare con i figli. Emblematico è il veterano di guerra, amante delle armi, fanatico nel montarle, pulirle ma distaccato e anaffettivo verso il suo bambino.
In questa anonima comunitá di scialbe esistenze, tutto sembra scorrere lento e indolente. Ben presto ci si rende conto che le vicende si susseguono in un crescendo inquietante di rabbia, alienazione, in alcuni casi di vera follia, fino a culminare con il gesto estremo del protagonista che, a colpi di fucile, compierá nella multisala di periferia una carneficina.
Il regista, ispirandosi a un fatto realmente avvenuto in Colorado nel 2012, denuncia il diffuso possesso di armi presente ancora oggi in molti stati d’america perché riconosciuto come diritto. Insiste anche sulla fragilitá dei giovani, sulla mancanza di riferimenti stabili nella famiglia, nei pari, sull’incapacitá di gestire le frustrazioni e di credere in un progetto di vita. Malessere esistenziale ed apatia vengono descritte da Sutton in modo inusuale, attraverso una violenza intrinseca, silenziosa, mai ostentata. In una scena di forte tensione emotiva vediamo il protagonista, futuro attentatore, puntare la canna del fucile contro la ragazza da cui è attratto, desistendo infine perché non ancora pronto. Sutton è bravissimo nell’inchiodare lo spettatore alla poltrona, tenendolo con il fiato sospeso fino all’ultimo minuto. Le immagini sono di grande impatto visivo, frequenti sono i primi piani di dettagli apparentemente insignificanti, le musiche lente e ripetitive rendono il tutto ancora piú suggestivo. Bravissimi gli attori anche se per lo piú sconosciuti.

“Tommaso” di Kim Rossi Stuart, Italia 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

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Il Tommaso di “Anche libero va bene” – alias Kim – è cresciuto, o almeno vorrebbe esserlo. E prova a dimostrare quanto impervia possa essere la strada che conduce dalla nevrosi che lo attanaglia alla maturità tanto agognata. La curiosità voyeristica, abilmente alimentata dalle conferenze-stampa, si impadronisce dello spettatore che si chiede quanto ci sia di autobiografico nella storia e corre smanioso a vedere il film. E resta deluso. Proverò a spiegare il perché per punti.
Il contenuto. Comincerei dalla nevrosi. Tommaso, edipicamente legato a una madre dipinta più come una macchietta che come una pericolosa Giocasta, è, nell’espressione del suo disagio, talmente finto che più finto non si può. Urla, strepita, piange, fa il ” frescone”, senza un briciolo di verisimiglianza. È talmente falso che non può essere messo di fronte a un “vero” psicoanalista, perché non saprebbe cosa fargli dire. Il tizio che lo cura, e che tutti inizialmente scambiamo per terapeuta accreditato, ad un certo punto lo “dimette” consigliandogli di rivolgersi ad un  vero professionista. Ma intanto gli ha istillato l’idea che lui guarirà solo dopo avere tirato fuori, lasciato uscire, liberato insomma, il bambino piccolo che è in lui. Tommaso ci riuscirà infine, attraverso una serie di sogni che sembrano usciti da un compendio di psicoanalisi per principianti. Ma solo dopo avere consultato un vero psicoanalista, da cui Tommaso ha deciso di farsi curare sul serio e che non vediamo in volto, perché nascosto dietro una porta.  Cosa avrà fatto il magico curatore d’anime non è dato sapere, ma sicuramente si tratta di un miracolo, perché la “nevrosi” con risvolti erotomanici svanisce e vediamo nell’ultima scena Tommaso seduto in riva al mare, pacato, con un libro sulle ginocchia. E finalmente capace  di riconoscere il vero amore che letteralmente arriverà dal mare…E si ripensa con rimpianto agli psicoanalisti impersonati da Nanni Moretti, da Margerita Buy, da Woody Allen, persino da Sergio Castellitto…
Il delirio erotomanico. Sembra messo lí a bella posta per rendere il film più appetibile: non c’è un minimo di credibilità nelle scene di sesso…E che dire della improbabile ragazza “sempliciotta” abitata da impellenti desideri sadomaso? Qui sarebbero molti i registi e gli attori da citare che Rossi Stuart ci fa rimpiangere…buttiamo là solo Fellini, maestro inarrivabile.
La cifra stilistica. Il film vuole essere una commedia, con tanto di lieto fine, dopo la palingenesi seguita a una rovinosa caduta di Tommaso da un albero. Ma fa l’occhiolino al genere ” dramma esistenziale”, con ampie digressioni nell’ inconscio rivelato da una profusione di sogni angosciosi e rivoltanti.  Alla fine non riesce ad essere né l’una né l’altro.
In conclusione, “Tommaso” un film ambizioso che non mantiene le promesse: disarmonico  e superficiale, che fa rimpiangere pellicole dove Rossi Stuart punta meno in alto e tratta temi importanti, come il rapporto tra genitori e figli, con ben altra sensibilità.

Adriana Grotta

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“Gantz:0” di Yasushi Kawamura, Giappone 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

gantz0Il famosissimo “seinen manga” (fumetto per maggiorenni) di Hiroya Oku sbarca alla Mostra del Cinema di Venezia nella sua nuova edizione in animazione digitale 3D. L’adattamento del fumetto di Oku è scintillante, cupo, erotico, violento e ritmata, una gioia per gli occhi ed un continuo stimolo visivo e sensoriale per il pubblico più aperto alle innovazioni linguistiche del videogame e del fumetto nipponico. La formula vincente della serie a fumetti contempla un costante turbinio di erotismo e morte in una suggestiva cornice fatascientifica. Le aspettative visive del lettore del manga vengono totalmente confermate dalle decisioni stilistiche del regista Yasushi Kawamura, veterano degli effetti visivi di molti videogiochi per Playstation 2 nel primo decennio del nuovo millennio. L’esperienza maturata da Kawamura in giochi come “Devil Kings” e “Shadow of Rome” dà i suoi migliori frutti in un film senza tempi morti, ritmato alla perfezione ed eseguito nei tempi narrativi che il cartone giapponese ed il videogioco di ultima generazione impongo per il pubblico più giovane. La raffigurazione degli antichi mostri e demoni della tradizione giapponese raggiunge in questo film lo stato dell’arte e la capacità di giocare con allusioni freudiane e junghiane nella composizione visiva riesce alla perfezione senza mai risultare grottesca o meccanica. Unico difetto del film è forse proprio la tecnologia di computer grafica, destinata ad invecchiare alla velocità della luce indebolendo la fascinazione visiva dell’opera. Il primo capitolo di quella che ci viene promessa come una saga di forte evocazione rende bene i personaggi senza svelare troppo dei misteri che governano le battaglie fra demoni ed esseri umani non morti, svelare la trama o spiegarne i meccanismi ucciderebbe il piacere della visione, anche parlare delle differenze fra fumetto e film comprometterebbe il gusto dello spettacolo; lasciamo quindi ad altre occasioni questo tipo di sviluppo e ci limitiamo a consigliare la visione dell’opera premettendo il necessario divieto ai minori e la doverosa capacità di giudizio dello spettatore davanti alla violenza del film, più simile ad una danza moderna che ad una vera rappresentazione della morte reale.

Daniele Clementi

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