” La Città Proibita ” di Zhang Yimou
Recensione di Marina Pianu
ovvero, la maledizione dei fiori dorati
i fiori sono dorati, ma nelle sapienti (sempre piu’ tremule) mani dell’avvenente imperatrice si tingono man mano di rosso, quel riflesso di rosso colante nei corridoi di palazzo, corridoi che bisbigliano origliano sorvegliano, dove puntuale passano le processioni, dove sfilano solenni i personaggi imperiali, rosso che alla fine tingera’ i fiori veri e quelli ricamati che quelli veri imitano. giallo e rosso si contendono il dominio della pellicola, in uno sfarzo di colori e costumi fatti per abbagliare conquistare distrarre da una trama troppo complicata e intrisa di temi secondari quasi inestricabili. giallo e giallo e giallo, ma non e’ un giallo, anche se per una buona parte lo vorrebbe sembrare. chi avvelena l’imperatrice? a che pro? quando lo spettatore trova la prima risposta, ha gia’ smesso di interrogarsi per la seconda.
tra il giallo e il rosso s’innesta il verde della tisana avvelenata, pervicacemente offerta e pervicacemente trangugiata. un verde che anziche’ speranza dona angoscia e inesorabile fatalita’, preludendo al nero dell’imboscata mortale, al nero della macchia finale oltre la quale non resta che il nulla del mandala di cielo e terra, sole e luna, ying e yang.
l’abbiamo ormai capito: il senso di futilita’ finale rientra nello stile di zhang yimou: come nelle precedenti epiche (“la foresta dei pugnali volanti”, “hero”) la lotta tra bene e male si risolve in una resa dei conti
sentimentale. vero e’ che noi siamo occidentali e (ancora!) abituati al modello di tragedia dove lo spargimento di sangue ha una motivazione logica, che sia redenzione o espiazione o immolazione, e in cui sempre alla fine scatta inesorabile l’effetto catartico, riscatto di ognuno degli spettatori. qui lo spargimento di sangue e’ totale; tutti quelli che le prendono le meritano almeno un po’. il figlio devoto s’immola (anche per evitare una piu’ aspra punizione) e rimaniamo con un cattivo (ma perche’ e’ tanto cattivo?) destinato a vedere la fine dei suoi giorni al fianco di una sposa ogni giorno piu’ cretina. e alla fine… come nel titolo di quel giallo famoso, non ne rimane nessuno: buoni e cattivi rientrano nel tutto nullo.
al tema politico del generale che si costruisce una nobilta’ per diventare imperatore e inventandosi una imperatrice defunta, s’intreccia il tema dell’incesto: nominale quello del figlio con l’imperatrice, vero quello dello stesso figlio con l’ancella che poi si scopre sorella. e si mescola la debolezza di carattere del primogenito, giustamente escluso dall’eredita’, con la forza del secondogenito, eroicamente devoto alla madre fino al punto di violare l’ingiunzione paterna (tutto ti verra’ dato se lo chiederai, ma niente dovrai prendere con la forza). il perfettamente malvagio ping (incarnazione di falsita’ e corruzione), sorretto da una carismatica interpretazione, ci spinge facilmente a simpatizzare per la sua sposa, pubblicamente umiliata e costretta a bere la bevanda malefica, ma ci resta sempre il dubbio: l’avvelena per vendicarsi della tresca, per eliminare un pericoloso testimone del suo dubbio passato, o ancora per sventare l’eventualita’ imminente di un colpo di stato?
non puo’ passare inosservato come le donne, tra loro, alla fine sono tutte solidali, anche se per calcolo piu’ che per sorellanza: la prima moglie fornisce all’imperatrice l’informazione di cui ha bisogno, e questa al momento opportuno invia gli aiuti per salvare la vita a lei e alla figlia, che pure le e’ rivale in amore. dubbio: quando l’imperatrice compie la sua sortita nella stanza del figliastro-amante per scoprirlo con l’ancella, e’ mossa da gelosia o dal piu’ nobile scopo di osteggiare un’amore realmente incestuoso?
a parte qualche involontario sorriso (ping che estrae la cintura per punire il terzogenito), molti gli interrogativi che questo film si lascia dietro e ognuno e’ libero di costruirci sopra le risposte che preferisce. certo e’ che siamo lontani dall’immagine eroica e umana dell’imperatore di “hero”, e tra lo sfarzo e l’abbaglio di costume, sanguinano le mura di meschinita’ egoismo e vanagloria. uno spettacolo per gli occhi, ma non precisamente per l’anima.
infine: e’ un peccato che il titolo italiano risulti fuorviante. allude, forse senza malizia, al celebre e decantato kolossal bertolucciano, che ha reso noto a molti l’esistenza della “citta’ proibita” (altra epoca, altri costumi, altri parametri, stesso decor). e’ un peccato perche’ il titolo originale, “la maledizione dei fiori dorati”, non solo risulta piu’ pertinente ma, anticipandolo, nel gran finale trova la sua con-clusione. del resto, non bisogna attendere molto per capire che tutta la cacca colpira’ il ventaglio con l’arrivo del chongyang festival!