Archivio mensile:aprile 2013

L’UOMO DI VETRO di Stefano Incerti – La storia incredibile (e non creduta) del primo pentito di mafia

A cura di Cult Movies

Si parla molto di pentiti in questi giorni e, perlopiù, come peraltro è sempre stato fatto in questo Paese imbrigliato con le mafie dalla notte dei tempi, per screditarli. Come se i magistrati prendessero de facto per buono ciò che qualsivoglia pentito racconta, senza cercare riscontri… La solita opera di mistificazione delle coscienze più sempliciotte e delle menti più credule (fors’anche per necessità contingenti o per fideismi di scarsa levatura). Come ricorda Travaglio nel “passa parola” di qualche tempo fa http://www.beppegrillo.it/2009/11/passaparola_lun_45.html#comments e come più volte sostiene Saverio Lodato (e com’è ovvio e ragionevole che sia) nell’ultima versione aggiornata del suo testo, ormai quasi “biblico” “Trent’anni di mafia – Storia di una guerra infinita” (Bur Saggi, 2008), tutto ciò che dichiarano i vari pentiti, prima di essere considerato minimamente attendibile, viene fatto oggetto di minuziosi, dettagliati e circostanziati riscontri. Oltre al fatto che, di solito, in primis, un pentito “vero” confessa, almeno in parte, le proprie malefatte, prima di quelle degli altri. Altrimenti, come appare logicamente consequenziale, salta completamente la sua stessa credibilità, lo status di pentito ed il conseguente programma di protezione.

Ma riavvolgiamo il nastro sino agli anni Settanta, a quando, cioè, non solo non esisteva alcuna legislazione in merito al pentitismo, ma neanche al reato di associazione mafiosa (figuriamoci il “concorso esterno”). Scrive Lodato (op. Cit.): “Alla fine degli anni ’70 si concludeva quasi un trentennio zeppo di omissis ammiccanti sui nomi di decine di uomini politici che forse di fronte alla mafia e ai suoi traffici avevano chiuso almeno un occhio. Se poi a qualche mafioso saltava in testa di raccontare la mafia dall’interno, accusandosi di delitti che lui stesso aveva commesso, lo stato provava un profondo senso di fastidio”. Ecco, è proprio in questo contesto “ammiccante” ed omissivo che si colloca la storia vera raccontata da Stefano Incerti, anche se “filtrata” dal romanzo omonimo di Salvatore Parlagreco. Stiamo parlando di Leonardo Vitale, soldato di mafia mai assurto a vertici di comando, il quale, letteralmente distrutto dai sensi di colpa, un giorno del 1973 sale di corsa le scale del Palazzo di Giustizia di Palermo e va a raccontare la sua tragica storia alle forze dell’ordine. Storia di un pentimento non di convenienza, un pentimento vero spinto dal rimorso, dalla fondamentale percezione dell’ingiustizia, della violenza, dell’assoluta mancanza di rispetto per la vita umana delle logiche mafiose. Non stiamo parlando di Buscetta, di Brusca, di grandi pentiti che, probabilmente, hanno usufruito della protezione prevista dalle leggi per calcolo, perché gli conveniva parlare, stiamo parlando, invece, di un uomo nato in una famiglia mafiosa e quindi nato e vissuto nelle logiche delle cosche, ma la cui coscienza non consentiva di farne parte a pieno titolo. Un pazzo, per quei tempi. Ed infatti Incerti scava approfonditamente in quella follia, nel concetto stesso di follia, che la stessa mafia utilizzò, d’accordo, evidentemente, con una parte delle istituzioni, per delegittimare le accuse, assolutamente fondate, circostanziate e verificabili, che Vitale portava alla luce del sole. Fu il primo pentito a descrivere il “sistema mafia” dall’interno, a raccontare dei mandamenti, del funzionamento delle famiglie, dei rituali di ammissione, ed ovviamente a descrivere dettagliatamente gli omicidi che lui stesso aveva commesso, le motivazioni ed i mandanti.

Guardando questo film si entra in un incubo. L’incubo di un uomo che, pur sapendo di star dicendo la verità, completa e verificata, di quanto in suo possesso, non viene creduto. Da nessuno. Soprattutto non dalle istituzioni, che non hanno il benché minimo strumento per utilizzare delle dichiarazioni che, ad una minima ricerca, risultano essere veritiere. In una sequenza del film vediamo infatti che l’unico Pubblico Ministero che prende a cuore le rivelazioni di Leonardo Vitale, si rende conto che ciò che Vitale descrive riguardo agli omicidi da lui commessi porta alla luce dettagli noti solo a chi ha condotto le indagini, particolari presenti solo nelle foto della polizia e non resi noti alla stampa, ad esempio. Ma la connivenza tra mafia e istituzioni fa sì che a tutti, tranne che a Vitale ed alla Giustizia (intesa come concetto teorico assoluto), convenga dire che Vitale è solo un pazzo. E le sue dichiarazioni sono solo frutto della sua follia. Il punto è che anche lo stesso Vitale, isolato da tutti e non creduto da nessuno, entra di fatto in una forma di delirio ossessivo. Anche lui pensa di essere pazzo. Ed il cerchio si chiude proprio su colui che dischiuse, per primo, le porte serrate del sistema mafioso. Di lui, di questa tragica figura umana, Giovanni Falcone, nel 1986, al Maxiprocesso di Palermo, disse: http://it.wikipedia.org/wiki/Leonardo_VitaleScarcerato nel giugno 1984, fu ucciso dopo pochi mesi, il 2 dicembre, mentre tornava dalla Messa domenicale. A differenza della Giustizia dello Stato, la mafia percepì l’importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell’omertà. E’ augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e che merita”. A questo link, http://www.antimafiaduemila.com/content/view/61/73/ un articolo di Giovanni Falcone dedicato all’importanza delle rivelazioni di Vitale, che, alla luce delle successive dichiarazioni di pentiti del calibro di Buscetta, ottennero finalmente, e post mortem, il credito che meritavano sin dall’inizio.

Incerti, mantenendo in sottofondo la denuncia sociale e storica della mafia, si occupa dell’uomo, del suo percorso nella follia, in una prima fase rispetto all’incapacità di convivere con sulla coscienza degli omicidi commessi per assecondare la sua famiglia, per esserne parte, poi, dopo il breve effetto catartico della confessione alle forze dell’ordine, per l’angoscia del non essere creduto, per la connivenza dimostrata dalle istituzioni con la mafia. Se, infatti, la cupola ha deciso che Vitale è un folle, e che le sue non sono rivelazioni ma un delirio irrazionale, lo Stato decide di allinearsi con questa tesi: è pazzo, quindi non credibile. Ed il cerchio si chiude con la percezione che Vitale finisce per avere di se stesso, seppure capovolta: non sono credibile, quindi sono un pazzo.

Probabilmente nessuno dei grandi pentiti di mafia, negli anni a venire, ha più confessato per i rimorsi della propria coscienza. Né Buscetta né Brusca, né, crediamo, ora Spatuzza o i Graviano. Ma ciò che costituisce il trait d’union tra tutti i pentiti, per qualsiasi ragione essi divengano collaboratori di giustizia, è il marchio d’infamia loro assegnato dal sistema omertoso. Si genera così il paradosso che non sarebbe “infame” chi uccide, ma chi confessa di averlo fatto, trascinando con sé molti altri…

Noi non ci stiamo, ed intendiamo ascoltare con molta attenzione le dichiarazioni dei pentiti, e rendiamo onore a quei magistrati e a quegli uomini di stato che si espongono, ancora oggi, non accettando che vengano seppellite nelle nebbie le responsabilità delle stragi del 1992-93. Siamo con Ingroia, con Di Matteo, con Scarpinato, con Caselli e con tutti quelli, come Salvatore Borsellino, che non si danno per vinti e procedono nel disvelamento progressivo di una complessa e articolata verità storica.

Tornando a Vitale, la mafia attese 11 lunghi anni, passati per lo più dall’”uomo di vetro” in manicomio criminale (incolpato solo lui degli omicidi confessati, tutti gli altri mafiosi da lui indicati come mandanti andarono assolti), ma non perdonò. Lo uccise, come sopra ricordava Falcone, il 2 dicembre 1984, seppure il suo sacrificio umano non produsse neanche una condanna, se non quella a se stesso.