Archivi categoria: mostra del cinema di venezia

“My art” di Laurie Simmons, Usa 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

my_art_still

Laurie Simmons, fotografa newyorkese di fama internazionale, è regista e interprete del film “My Art” presentato al 73 Festival del Cinema di Venezia nella sezione Cinema nel giardino.

L’artista non è nuova a questo tipo di esperienza. Nel 2006 infatti esordisce alla cinepresa con “The Music of Regret” un musical ambizioso di tre atti che coinvolge musicisti, burattinai professionisti, nonché l’attrice Meryl Streep. Fin da piccola la Simmons è affascinata dal genere teatrale musicale e la realizzazione di questo musical sembra voler trasporre nella realtà i manichini e le bambole da lei utilizzati nelle numerose opere fotografiche che, con il tempo, l’hanno resa celebre in tutta America. Una seconda esperienza avviene nel 2009 quando Laurie Simmons recita nel ruolo della madre-artista della protagonista del film “Tiny Furniture”, il primo lungometraggio diretto dalla figlia Lena Dunham. Invece, in questa successiva esperienza registica di “My Art”, l’autrice riflette sul ruolo dell’artista-donna, sulla passione e la tenacia che spingono a crescere, evolvere e continuare a ‘sublimare’ con l’arte. La protagonista, Ellie Shine, è un’artista newyorkese single, impegnata nell’insegnamento, stimata dai suoi allievi e benvoluta dall’entourage di amici artisti. Tuttavia, arrivata ormai a una fase matura della carriera (Ellie ha piú di sessant’anni), sembra scontenta e delusa di non aver raggiunto la notorietà. E quando una cara amica, artista affermata, le impresta una videocamera e la incoraggia a ritirarsi nella sua villa di campagna per ritrovare quiete e concentrazione, Ellie non si lascia sfuggire l’occasione e affronta con entusiasmo la nuova esperienza. Il luogo magico nonché la conoscenza di Frank, Tom (i giardinieri della villa ed ex attori disoccupati) e l’incontro con John (avvocato disilluso alla ricerca di distrazione) aiuteranno la protagonista a risvegliare entusiasmo e ispirazione. Il rifacimento in chiave ironica di alcune fra le scene più famose della storia del cinema, in cui romanticismo, malinconia ed ironia si mischiano fra di loro, è la parte più esilarante del film. Ma ciò che colpisce e incoraggia di questa storia sono il coraggio e la caparbietá di Ellie che non rinuncia a mettersi in gioco professionalmente, cosí come a rinnamorarsi nonostante l’etá. Apprezzato è anche la scelta del happy end che conferma il raggiungimento del successo per l’artista ma non l’inizio della nuova love story.

Silvia Degli Abbati

Contrassegnato da tag , ,

“Boys in the trees” di Nicholas Verso, Australia 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

mv5bymy2nmexmgetzdyxms00zgrjlwi0zwqtmdcwmdm1ywuwmgyxxkeyxkfqcgdeqxvymjyyntazmw-_v1_sy1000_cr0014981000_al_

Succede tutto in una notte nel film ” Boys in the trees”  del regista australiano Nicholas Verso. Succede che un ragazzo, Corey, diventa uomo attraverso la paura e la sofferenza. Ma anche attraverso il contatto ravvicinato con il femminile, impersonato dalla bella e solida Romany. Il regista  ripesca i suoi ricordi adolescenziali per offrirci una storia intensa e ricca di implicazioni psicologiche  e sociologiche. Il film, ambientato nel 1997, all’alba della diffusione (invasione?) massiccia della rete nella vita dei ragazzi, parla dell’esperienza di un ragazzo di 16 anni, avvenuta in una cittadina della provincia australiana nella notte di Halloween, che si trasforma in una vera propria iniziazione alla vita adulta. Il francese David Le Breton in un libro intitolato “Antropologia del dolore” sostiene che “il dolore inerisce alla vita come contrappunto che dà pienezza al fervore di esistere” e analizza i comportamenti degli adolescenti di oggi paragonandoli ai riti di iniziazione delle società basate su un’organizzazione tribale. Corey appartiene alla gang dei Gromits, capeggiata dal “cinico” Jango e composta da un pugno di ragazzi in cerca di identità e sicurezza e, anche se lui appare da subito più sensibile degli altri, subisce il fascino del capo che stabilisce i comportamenti da adottare e quelli da evitare. Tra questi ultimi vi sono il rispetto dei genitori, la tenerezza verso le donne, l’accettazione del “diverso” di qualunque tipo. Esibirsi, fare i duri, menare le mani con chiunque si metta sulla loro strada, saccheggiare le dispense dei genitori, soprattutto le scorte di alcolici, ostentare la propria “natura” di adolescenti proprio come se questa fosse una condizione eterna,  sono invece le regole non scritte del gruppo. Corey ama la fotografia e la camera oscura e vorrebbe studiarla all’università lasciando gruppo e terra natale, ma questo significherebbe, agli occhi di Jango, immettere una progettualità, e quindi il senso del tempo, all’interno dell’organizzazione sociale della banda, basata sul “qui ed ora”, con il rischio di scardinarla e questo non è possibile. Corey sembra rinunciare alle sue aspirazioni in cambio della sicurezza. Accetta di fotografare le esibizioni in skateboard di Jango e compagni, dove la ricerca del rischio, come lo stesso Le Breton ci ricorda, fa parte del gioco: l’adolescente deve sperimentare da vicino la fragilità di un corpo di cui è finalmente padrone per conquistare il diritto ad esistere nel mondo. Anche questo fa parte dei riti di iniziazione. Ma Corey è costretto a fotografare anche la faccia ammaccata di Jonah, che ha appena incassato un cazzotto da Jango per avergli attraversato la strada involontariamente mentre lui si esibiva vanitosamente sullo skate. Corey non partecipa attivamente allo scherno nei confronti del “diverso” Jonah, ma non si oppone alla diffusione della foto che, fotocopiata in molti esemplari, finisce per tappezzare muri e alberi della cittadina. Se non che, Jonah è stato un suo grande amico quando i due erano bambini e passavano tempo sugli alberi a giocare e fantasticare. E questo è il primo albero che incontriamo nel film e che gli dà il titolo. Altri alberi ci saranno: reali, ricordati o metaforici, tutti grandemente significativi per l’evoluzione della storia. Di cui ora non voglio dire altro, ma solo suggerire. Inizia un viaggio fantastico, magico e – complice la notte di Halloween – pauroso, che Corey affronta con Jonah e infine da solo, ma dopo avere avuto un contatto ravvicinato con Romany che sembra avergli dato il coraggio di continuare, come succedeva agli eroi delle leggende del tempo che fu.

Lo spettatore, come nei film di Tim Burton, deve immergersi e vivere l’esperienza che gli viene presentata, lasciarsi trasportare dall’irrazionale, invadere dal dubbio e dall’incertezza, dalla paura. Solo in questo modo potrà sentire cosa prova Corey e con lui l’adolescente che cerca di uscire da soluzioni facili e rassicuranti e nascere ad un nuovo stato, quello di adulto, senza rinunciare ai sogni, diventati ora anche aspirazioni e progetti.

Un film pregevole e sensibile, in conclusione, che esplora temi che esploderanno nei successivi vent’anni: l’approfondirsi della crisi della società occidentale che complica ulteriormente il passaggio adolescenziale, la dipendenza dalla rete usata anche per sopraffare i più deboli, il bullismo nei confronti dei diversi. Solo qualche appunto. Ci sono passaggi, soprattutto all’inizio, un po’ didascalici, ad esempio quando i ragazzi si definiscono “adolescenti”. Loro non lo fanno mai, a mio parere, mentre, se mai, amano definire gli altri, sia i bambini che gli adulti. E, per ultimo, una considerazione sul finale del film. Lo spettatore ha già capito tutto quello che c’era da capire e ha “sentito” quello che c’era da sentire, anche senza la rassicurazione dell’ultima scena.

Adriana Grotta

Contrassegnato da tag , ,

“Brimstone” di Martin Koolhoven, Olanda 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

brimstone-6-1

Le inaspettate reazioni di critica e pubblico al film Brimstone lasciano perplessi e meritano perciò qualche riflessione, che esula dal film in sé, sui contenuti e sulle loro modalità di trasmissione. Brimstone, co-produzione europea e regia olandese, appartiene al genere western “tardivo”, adatto mirabilmente a fare da contenitore di storie complesse. In tale cornice, le vicende si snoderebbero senza particolari scossoni, assecondando un’evoluzione naturale. I giochi son già fatti sin dall’inizio e in un certo senso tutto è prevedibile. Brimstone non smentisce questo collaudato schema, purtuttavia l’impatto col pubblico alla sua prima uscita indurrebbe a pensare che qualche cosa nello schema non abbia funzionato come doveva.

Sullo sfondo di un West desolato e inospitale, assistiamo alle peripezie di Liz, giovane prostituta costretta a fuggire sin dall’infanzia da un persecutore che, nelle vesti di un Reverendo rigido e crudele (patrigno), la stana ovunque vada per vendicarsi del fatto di essere stato a suo tempo da lei rifiutato. In ognuna delle piccole comunità in cui si insedia Liz rincomincia da capo, con immutata voglia di vivere, ma la violenza del Reverendo non le concede tregua. Liz arriva ad auto-mutilarsi, facendosi tagliare la lingua, per assumere l’identità di una donna morta e salvare così se stessa e la figlia. Ma anche questo non basta a metterla al riparo da ogni sorta di violenza e tortura. Liz è una donna sola – “single” diremmo oggi – esposta a tutte le possibili angherie che un essere considerato inferiore perché donna deve subire. Liz può solo contare sulle proprie forze e sui propri princìpi, senza cedere ai pregiudizi che vedono in lei una minaccia per la comunità. In questo è sostenuta dal suo straordinario coraggio e da un’incrollabile determinazione, qualità queste che il mondo retrivo cui appartiene il Reverendo non è disposto a perdonare in una donna e che, con spaventoso crescendo, la porteranno a soluzioni estreme, pur di salvare la propria dignità e il rispetto di se stessa, essendo ormai certa che la figlia abbia assimilato i suoi valori.

Il film è stato ostracizzato per le scene di violenza <<gratuita>>, <<ai confini dell’horror>> e criticato per un supposto <<eclettismo esasperato e inconcludente>>. Nulla a che ridire sul cast di eccezionale bravura, ma la regia invece è stata ritenuta superficiale e <<disimpegnata>> per come ha trattato gli argomenti del film. Vogliamo fare qualche esempio dei passaggi che potrebbero aver turbato critici e spettatori?

Un elemento di disturbo potrebbe essere considerato quello in cui il Reverendo impone, alla protagonista e alla moglie, l’uso della mordacchia o bavaglio dei muti: una sorta di maschera di ferro dolorosa, risalente al Rinascimento, atta a punire e umiliare il peccatore per la sua tracotanza. Tant’è che la moglie non regge e si impicca. Se qualche addetto ai lavori individuasse in questa parte del film dei motivi di inesattezza o esagerazione, gli basterà andare su Internet alla voce “mordacchia” e troverà la riproduzione di questo strumento di tortura, oltre all’immagine di una litografia che ne mostra diffusione ed uso in New England. La data è 1885.

Ci sarebbe un altro episodio adatto a dividere il pubblico in schieramenti opposti. E’ l’episodio del difficile parto di una donna della comunità in cui Liz si è stabilita da poco e dove lei, Liz, si ritrova a dover fare assistenza, profondendosi generosamente in cure per la madre, ritenuta con maggiori speranze di vita del bambino. Moriranno entrambi e Liz la pagherà ancora una volta, colpevole di avere scelto e deciso lei chi dei due avrebbe dovuto avere la precedenza nelle cure. Visti i risultati, Liz viene accusata di assassinio e di nuovo le toccherà  emigrare.

Ultimo esempio. Verso la fine il Reverendo, dopo aver appiccato il fuoco e distrutto tante case quante quelle abitate da Liz, finisce lui stesso nel fuoco. Mentre brucia, la sua immagine si dissolve per trasformarsi in qualcosa di più simile al Demonio che a un buon cristiano al rogo.

Che cosa hanno in comune questi tre episodi diversissimi tra loro ed estrapolati a caso dal film? Essi ci mostrano come l’odio e il disprezzo per la donne siano capaci di generare impensabili efferatezze, potenziate da un atteggiamento religioso prossimo al fanatismo che nega ogni ricorso alla ragione e al buon senso. Si può subito obiettare che – restando all’ultima edizione veneziana del Festival tutt’ora in corso – questo tipo di tematiche è presente anche in altri film che si sono prodigati in violenze e torture come e più di Brimstone. Valga per tutti Hacksaw Ridge, di Mel Gibson, dove la cinepresa indugia, e sembrerebbe a tratti compiacersi, nel mostrare carni macellate, vite crudamente spezzate, interiora umane che schizzano di qua e di là etc. Ma c’è una differenza, che è forse fondamentale. In Gibson l’orrore e il macabro sono in funzione dell’esaltazione delle virtù del protagonista, il primo obiettore di coscienza della storia, uomo pio dalle radicate convinzioni religiose che vediamo in preghiera almeno un paio di volte. Come dire che il fine giustifica i mezzi. In Brimstone, questa finalità teleologica è del tutto assente e il regista si limita a “registrare” una realtà piena di contraddizioni, non più violenta di come doveva essere stata storicamente quella “vera”. E il regista Koohloven ce la racconta, senza scomodare i grandi eroi. Infatti, a parte le idealizzazioni del Far West come ci siamo abituati a vederle almeno da John Ford in avanti, è lecito immaginare che quel mondo, senza controlli e senza governi, racchiudesse il peggio di quanto è capace di esprimere la natura umana. Un mondo, se non già un’epopea, dove solo il coraggio della disperazione poteva indurre un uomo ad avventurarvisi dentro, abbandonati scrupoli e princìpi. Dunque orrori, violenze, torture sembra che possano andare bene se subordinati a un fine altro, ipocritamente invocato per aggirare l’ostacolo moralista, a patto di configurarsi come l’anello necessario per condannare quanto le stesse violenze hanno prodotto.

Forse  Brimston non passerà alla storia come uno dei migliori cento film da salvare, ma è certo che ha il merito di aver messo a nudo realtà sinora coperte dall’ideologia e dal conformismo, e di raccontarle nel più tradizionale, e perciò nel più efficace, dei modi conosciuti dal cinema: una storia ben ambientata, ben recitata, ben sceneggiata, ben musicata  e bene diretta, immune da critiche di retroguardia e con un messaggio chiaro e univoco.

Antonella Mancini

Contrassegnato da tag , ,

“Voyage of Time: Life’s Journey” di Terrence Malick, Usa 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

screen-shot-2016-06-30-at-9-06-03-am

L’ultimo film di Terrence Malick, ‘Voyage of Time: Life’s Journey’ in concorso al 73 Festival del Cinema di Venezia, è un inno alla vita, un’invocazione solenne a Madre Natura creatrice dell’uomo e dell’universo. Il film è una sorta di viaggio mentale che tra musiche suggestive (scritte fra l’altro dal bravissimo Ennio Morricone) ed immagini spettacolari diventa quasi ‘un’esperienza extrasensoriale’. Il regista, mescolando sapientemente fotografia reale a innovativi effetti speciali, ricostruisce la cronologia dell’universo, dall’espansione delle galassie (con un esplicito riferimento alla teoria del Big Bang) alla comparsa dell’uomo sulla terra. Malick emoziona e strabilia con un’alternanza continua di immagini per cui si passa dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, dalle nebulose del cosmo a microscopici fenomeni cellulari, dalla profonditá degli abissi marini agli scorci aerei su foreste equatoriali. Ma se l’energia della natura fa scorrere incessantemente la vita, la presenza dell’uomo ha creato squilibrio e stravolto inevitabilmente il pianeta. Il rapporto tra esseri umani, natura e mondo animale è imprescindibile ma va riorganizzato. Malick, attraverso il dialogo tra uomo e madre natura (voce off di Cate Blanchett) pone delle domande esistenziali, puntuali. S’interroga sul pianeta, su cosa ne sará dell’uomo. E se da un lato ricostruisce il nostro ‘passato planetario’ esaltando la magnificenza della natura, dall’altro sembra riflettere sul declino morale dell’uomo e sull’emergenza di preservare il pianeta, l’unico modo per garantire continuità alla vita terrestre.
Personalmente nell’insieme il film è molto suggestivo e di forte impatto visivo. Tuttavia, in questa laboriosa alternanza di immagini scenografiche non sempre è chiaro dove il regista voglia parare e a quale riflessione filosofico-esistenziale aspiri. Probabilmente ognuno di noi è libero di riconoscervi quello che meglio crede: il miracolo divino, la piccolezza dell’uomo o la magnificenza della vita.

Silvia Degli Abbati

Contrassegnato da tag , ,

“Tommaso” di Kim Rossi Stuart, Italia 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

27744-tommaso_-_director_kim_rossi_stuart____stefano_montesi-klgf-1280x960web

Il Tommaso di “Anche libero va bene” – alias Kim – è cresciuto, o almeno vorrebbe esserlo. E prova a dimostrare quanto impervia possa essere la strada che conduce dalla nevrosi che lo attanaglia alla maturità tanto agognata. La curiosità voyeristica, abilmente alimentata dalle conferenze-stampa, si impadronisce dello spettatore che si chiede quanto ci sia di autobiografico nella storia e corre smanioso a vedere il film. E resta deluso. Proverò a spiegare il perché per punti.
Il contenuto. Comincerei dalla nevrosi. Tommaso, edipicamente legato a una madre dipinta più come una macchietta che come una pericolosa Giocasta, è, nell’espressione del suo disagio, talmente finto che più finto non si può. Urla, strepita, piange, fa il ” frescone”, senza un briciolo di verisimiglianza. È talmente falso che non può essere messo di fronte a un “vero” psicoanalista, perché non saprebbe cosa fargli dire. Il tizio che lo cura, e che tutti inizialmente scambiamo per terapeuta accreditato, ad un certo punto lo “dimette” consigliandogli di rivolgersi ad un  vero professionista. Ma intanto gli ha istillato l’idea che lui guarirà solo dopo avere tirato fuori, lasciato uscire, liberato insomma, il bambino piccolo che è in lui. Tommaso ci riuscirà infine, attraverso una serie di sogni che sembrano usciti da un compendio di psicoanalisi per principianti. Ma solo dopo avere consultato un vero psicoanalista, da cui Tommaso ha deciso di farsi curare sul serio e che non vediamo in volto, perché nascosto dietro una porta.  Cosa avrà fatto il magico curatore d’anime non è dato sapere, ma sicuramente si tratta di un miracolo, perché la “nevrosi” con risvolti erotomanici svanisce e vediamo nell’ultima scena Tommaso seduto in riva al mare, pacato, con un libro sulle ginocchia. E finalmente capace  di riconoscere il vero amore che letteralmente arriverà dal mare…E si ripensa con rimpianto agli psicoanalisti impersonati da Nanni Moretti, da Margerita Buy, da Woody Allen, persino da Sergio Castellitto…
Il delirio erotomanico. Sembra messo lí a bella posta per rendere il film più appetibile: non c’è un minimo di credibilità nelle scene di sesso…E che dire della improbabile ragazza “sempliciotta” abitata da impellenti desideri sadomaso? Qui sarebbero molti i registi e gli attori da citare che Rossi Stuart ci fa rimpiangere…buttiamo là solo Fellini, maestro inarrivabile.
La cifra stilistica. Il film vuole essere una commedia, con tanto di lieto fine, dopo la palingenesi seguita a una rovinosa caduta di Tommaso da un albero. Ma fa l’occhiolino al genere ” dramma esistenziale”, con ampie digressioni nell’ inconscio rivelato da una profusione di sogni angosciosi e rivoltanti.  Alla fine non riesce ad essere né l’una né l’altro.
In conclusione, “Tommaso” un film ambizioso che non mantiene le promesse: disarmonico  e superficiale, che fa rimpiangere pellicole dove Rossi Stuart punta meno in alto e tratta temi importanti, come il rapporto tra genitori e figli, con ben altra sensibilità.

Adriana Grotta

Contrassegnato da tag , ,

“Gantz:0” di Yasushi Kawamura, Giappone 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

gantz0Il famosissimo “seinen manga” (fumetto per maggiorenni) di Hiroya Oku sbarca alla Mostra del Cinema di Venezia nella sua nuova edizione in animazione digitale 3D. L’adattamento del fumetto di Oku è scintillante, cupo, erotico, violento e ritmata, una gioia per gli occhi ed un continuo stimolo visivo e sensoriale per il pubblico più aperto alle innovazioni linguistiche del videogame e del fumetto nipponico. La formula vincente della serie a fumetti contempla un costante turbinio di erotismo e morte in una suggestiva cornice fatascientifica. Le aspettative visive del lettore del manga vengono totalmente confermate dalle decisioni stilistiche del regista Yasushi Kawamura, veterano degli effetti visivi di molti videogiochi per Playstation 2 nel primo decennio del nuovo millennio. L’esperienza maturata da Kawamura in giochi come “Devil Kings” e “Shadow of Rome” dà i suoi migliori frutti in un film senza tempi morti, ritmato alla perfezione ed eseguito nei tempi narrativi che il cartone giapponese ed il videogioco di ultima generazione impongo per il pubblico più giovane. La raffigurazione degli antichi mostri e demoni della tradizione giapponese raggiunge in questo film lo stato dell’arte e la capacità di giocare con allusioni freudiane e junghiane nella composizione visiva riesce alla perfezione senza mai risultare grottesca o meccanica. Unico difetto del film è forse proprio la tecnologia di computer grafica, destinata ad invecchiare alla velocità della luce indebolendo la fascinazione visiva dell’opera. Il primo capitolo di quella che ci viene promessa come una saga di forte evocazione rende bene i personaggi senza svelare troppo dei misteri che governano le battaglie fra demoni ed esseri umani non morti, svelare la trama o spiegarne i meccanismi ucciderebbe il piacere della visione, anche parlare delle differenze fra fumetto e film comprometterebbe il gusto dello spettacolo; lasciamo quindi ad altre occasioni questo tipo di sviluppo e ci limitiamo a consigliare la visione dell’opera premettendo il necessario divieto ai minori e la doverosa capacità di giudizio dello spettatore davanti alla violenza del film, più simile ad una danza moderna che ad una vera rappresentazione della morte reale.

Daniele Clementi

20160429160944_43766 gantz-o-trailer-i-4 20160429161035_55365 gantz-0-pv-ningen-video

Contrassegnato da tag , ,

“Nocturnal animals” di Tom Ford, Inghilterra 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

noctL’opera seconda di Tom Ford è un trionfo dell’estetica del cinema, un film da vedere prima che da capire, da assaporare per ogni singola inquadratura per le sue scelte di montaggio e di postproduzione piuttosto che per il suo filo narrativo. Bisogna però riconoscere che anche dal punto di vista del racconto Ford sceglie una storia unica, un doppio racconto fra il cinema di genere ed il cinema d’autore, un’esperimento raffinato e coraggioso e, come capita di rado, totalmente compatibile con il pubblico meno sofisticato senza perdere in bellezza, unicità ed eccellenza artistica. Con questo secondo film Ford si conferma come uno dei nomi più promettenti del cinema contemporaneo britannico ed uno degli autori dalla personalità più forte ed attraente del cinema europeo.

Daniele Clementi

“Rocco” di Thierry Demaiziere, Alban Teurlai, Italian 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

rocco

Sfidando non poche ipocrisie e in barba ai falsi perbenismi, la vita di Rocco Tano, in arte Rocco Siffredi, approda a Venezia in una veste a mezza strada tra fiction e documentario. Rocco Siffredi è oggi il più noto pornodivo italiano, conosciuto anche all’estero, dove ha lavorato per anni (USA, Francia), conseguendo premi e riconoscimenti come modello, come attore e come regista. Personaggio poliedrico e tormentato, di grande intelligenza, dalle molte interviste rilasciate (in particolare ne ricordiamo una di qualche anno fa a Micromega in occasione di un numero dedicato al corpo) emerge un uomo che si interroga continuamente sul senso delle cose e su se stesso. Sollecitato da anni a fare un film sulla propria vita, solo adesso, a 52 anni, ha consentito: <<Quello che mi ha fatto dire di si è che non è un documentario sulla mia vita, ma un resoconto di dubbi, paure e fragilità che mi si sono scatenate intorno alla soglia dei 50 anni. A me raccontare Rocco sex-machine non frega assolutamente nulla (…) C’è molta tristezza nel porno e anche dolore>> (Corriere del Veneto, 29. O8. 16)

Rocco nasce a Ortona, provincia di Chieti, nel 1964 e sin da piccolo ha sofferto per la situazione economica non proprio brillante della sua famiglia, con sei fratelli e il padre casellante. Legatissimo alla madre, la assisterà sino alla morte interrompendo per due mesi qualsiasi attività. Spinto dal bisogno di riscatto sociale, farà vari mestieri, fino ad arrivare a ottenere un impiego in banca, soddisfacendo finalmente le ambizioni del padre. Ma ben presto Rocco manda all’aria questo bel quadretto per assecondare invece i propri desideri. E lo fa impostando la sua vita sull’uso della sessualità, sino a farne un mestiere. Considerato un impiccio (<< avevo il diavolo tra le gambe>>), il sesso, già ragione di vita sin dalla più tenera infanzia, diventa ora anche fonte di guadagno, oggetto di lavoro, in questo favorito da una dotazione anatomica che gli ha sempre garantito il successo e non lo ha mai tradito. Ma per Rocco Siffredi il sesso è anche droga e incubo, è qualcosa difficile da gestire; qualcosa che lo fa stare <<in perenne conflitto con se stesso>>, diviso tra le esigenze del mestiere e quelle dall’affezionatissima, famiglia, moglie e due figli oggi ventenni.

Il documentario ci mostra anche Rocco al lavoro, ed è la parte più interessante, dove emerge la sua serietà professionale. Il sesso come mestiere viene depurato di tutti i suoi aspetti volgari e morbosi, divenendo un oggetto di lavoro come un altro, sul quale intervenire tecnicamente e sempre nel rispetto della persona, qualsiasi cosa essa stia facendo. Si può restare perplessi, si può non condividere, ma una cosa è certa: Siffredi appartiene a quell’esiguo numero di pornostar che con la loro intelligenza, sensibilità e magari anche nevrosi, ha contribuito a restituire alla sessualità il posto che le conviene nella vita di ognuno di noi. Ciò che presuppone anche un profondo senso etico. Una testimonianza coraggiosa quella di Rocco Siffredi, al quale si possono anche perdonare alcune cadute autocelebrative.

Antonella Mancini

Contrassegnato da tag ,

“Il grande sogno” di Michele Vannucci, Italia 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

29180-Il_pi___grande_sogno_5Tutto ruota intorno a Mirko Frezza, il suo magnetico carisma, la sua naturalezza davanti alla macchina da presa, la sua presenza scenica e non basta. Mirko è prima di tutto una persona vera, un vero volto, una vera storia, una vita vissuta intensa dolorosa, gloriosa e tenera, Mirko è la verità che il Cinema insegue senza mai raggiungere veramente. Il regista Michele Vannucci ci regala la storia ordinaria di uno spacciatore ex galeotto che cerca la redenzione, l’affermazione della sua paternità la voglia di costruire e fondare qualcosa di concreto, un personaggio adulto ed umano che va oltre gli sbagli della giovinezza. Un film completo e compiuto dall’intensità unica, il respiro moderno e pasoliniano, ma è solo quando ci è concesso di capire che la storia non è del tutto tale, solo quando capiamo e sentiamo che il film è solo l’espediente per raccontare del vero Mirko, della sua vera vita e del fuoco reale che brucia dentro a chi ha sbagliato ed ha fame di redimersi che capiamo quanto voli alto questo piccolo e meraviglioso film.

Daniele Clementi

Contrassegnato da tag , ,

“Safari” di Ulrich Seidl, Austria 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

safari-5Ulrich Seidl realizza un film sulla natura umana partendo dalla distruzione della natura stessa da parte dell’essere umano. Un documentario lucido, ironico, spietato, essenziale, sostanzialmente puro sull’omicidio degli animali, perpetrato a scopo ludico, attraverso la pratica turistica della caccia e dei safari africani. Seidl si interroga sull’impulso umano dell’omicidio, sul desiderio che porta gli europei a raggiungere l’Africa per il puro piacere di uccidere esseri viventi. Mentre il regista interroga se stesso e lo spettatore sulla natura dei soggetti del suo documentario, emerge un ritratto speculare inevitabile della nostra società, dove animali nobili e rari sono carne da macello per facoltosi cacciatori bianchi che sfruttano la manovalanza di colore, una forza lavoro al servizio di un colonialismo che non è mai del tutto svanito ma è diventato solo più consumistico e mercificante. Il profondo contrasto sociale fra il cacciatore bianco e l’inserviente di colore filtrato dal sangue degli animali raggiunge un livello di dolorosa lucidità quasi unico nel cinema contemporaneo con una narrativa essenziale e pura, dura ed onesta che non lascia scampo ad alibi o ipocrisie dello spettatore. Le immagini strazianti di una giraffa in agonia o la macellazione di una zebra fanno solo da sfondo ad un film che nel sottile sottotesto racconta la banalità del male e la mostruosità della civiltà umana contemporanea.

Daniele Clementi

Contrassegnato da tag , ,