Le inaspettate reazioni di critica e pubblico al film Brimstone lasciano perplessi e meritano perciò qualche riflessione, che esula dal film in sé, sui contenuti e sulle loro modalità di trasmissione. Brimstone, co-produzione europea e regia olandese, appartiene al genere western “tardivo”, adatto mirabilmente a fare da contenitore di storie complesse. In tale cornice, le vicende si snoderebbero senza particolari scossoni, assecondando un’evoluzione naturale. I giochi son già fatti sin dall’inizio e in un certo senso tutto è prevedibile. Brimstone non smentisce questo collaudato schema, purtuttavia l’impatto col pubblico alla sua prima uscita indurrebbe a pensare che qualche cosa nello schema non abbia funzionato come doveva.
Sullo sfondo di un West desolato e inospitale, assistiamo alle peripezie di Liz, giovane prostituta costretta a fuggire sin dall’infanzia da un persecutore che, nelle vesti di un Reverendo rigido e crudele (patrigno), la stana ovunque vada per vendicarsi del fatto di essere stato a suo tempo da lei rifiutato. In ognuna delle piccole comunità in cui si insedia Liz rincomincia da capo, con immutata voglia di vivere, ma la violenza del Reverendo non le concede tregua. Liz arriva ad auto-mutilarsi, facendosi tagliare la lingua, per assumere l’identità di una donna morta e salvare così se stessa e la figlia. Ma anche questo non basta a metterla al riparo da ogni sorta di violenza e tortura. Liz è una donna sola – “single” diremmo oggi – esposta a tutte le possibili angherie che un essere considerato inferiore perché donna deve subire. Liz può solo contare sulle proprie forze e sui propri princìpi, senza cedere ai pregiudizi che vedono in lei una minaccia per la comunità. In questo è sostenuta dal suo straordinario coraggio e da un’incrollabile determinazione, qualità queste che il mondo retrivo cui appartiene il Reverendo non è disposto a perdonare in una donna e che, con spaventoso crescendo, la porteranno a soluzioni estreme, pur di salvare la propria dignità e il rispetto di se stessa, essendo ormai certa che la figlia abbia assimilato i suoi valori.
Il film è stato ostracizzato per le scene di violenza <<gratuita>>, <<ai confini dell’horror>> e criticato per un supposto <<eclettismo esasperato e inconcludente>>. Nulla a che ridire sul cast di eccezionale bravura, ma la regia invece è stata ritenuta superficiale e <<disimpegnata>> per come ha trattato gli argomenti del film. Vogliamo fare qualche esempio dei passaggi che potrebbero aver turbato critici e spettatori?
Un elemento di disturbo potrebbe essere considerato quello in cui il Reverendo impone, alla protagonista e alla moglie, l’uso della mordacchia o bavaglio dei muti: una sorta di maschera di ferro dolorosa, risalente al Rinascimento, atta a punire e umiliare il peccatore per la sua tracotanza. Tant’è che la moglie non regge e si impicca. Se qualche addetto ai lavori individuasse in questa parte del film dei motivi di inesattezza o esagerazione, gli basterà andare su Internet alla voce “mordacchia” e troverà la riproduzione di questo strumento di tortura, oltre all’immagine di una litografia che ne mostra diffusione ed uso in New England. La data è 1885.
Ci sarebbe un altro episodio adatto a dividere il pubblico in schieramenti opposti. E’ l’episodio del difficile parto di una donna della comunità in cui Liz si è stabilita da poco e dove lei, Liz, si ritrova a dover fare assistenza, profondendosi generosamente in cure per la madre, ritenuta con maggiori speranze di vita del bambino. Moriranno entrambi e Liz la pagherà ancora una volta, colpevole di avere scelto e deciso lei chi dei due avrebbe dovuto avere la precedenza nelle cure. Visti i risultati, Liz viene accusata di assassinio e di nuovo le toccherà emigrare.
Ultimo esempio. Verso la fine il Reverendo, dopo aver appiccato il fuoco e distrutto tante case quante quelle abitate da Liz, finisce lui stesso nel fuoco. Mentre brucia, la sua immagine si dissolve per trasformarsi in qualcosa di più simile al Demonio che a un buon cristiano al rogo.
Che cosa hanno in comune questi tre episodi diversissimi tra loro ed estrapolati a caso dal film? Essi ci mostrano come l’odio e il disprezzo per la donne siano capaci di generare impensabili efferatezze, potenziate da un atteggiamento religioso prossimo al fanatismo che nega ogni ricorso alla ragione e al buon senso. Si può subito obiettare che – restando all’ultima edizione veneziana del Festival tutt’ora in corso – questo tipo di tematiche è presente anche in altri film che si sono prodigati in violenze e torture come e più di Brimstone. Valga per tutti Hacksaw Ridge, di Mel Gibson, dove la cinepresa indugia, e sembrerebbe a tratti compiacersi, nel mostrare carni macellate, vite crudamente spezzate, interiora umane che schizzano di qua e di là etc. Ma c’è una differenza, che è forse fondamentale. In Gibson l’orrore e il macabro sono in funzione dell’esaltazione delle virtù del protagonista, il primo obiettore di coscienza della storia, uomo pio dalle radicate convinzioni religiose che vediamo in preghiera almeno un paio di volte. Come dire che il fine giustifica i mezzi. In Brimstone, questa finalità teleologica è del tutto assente e il regista si limita a “registrare” una realtà piena di contraddizioni, non più violenta di come doveva essere stata storicamente quella “vera”. E il regista Koohloven ce la racconta, senza scomodare i grandi eroi. Infatti, a parte le idealizzazioni del Far West come ci siamo abituati a vederle almeno da John Ford in avanti, è lecito immaginare che quel mondo, senza controlli e senza governi, racchiudesse il peggio di quanto è capace di esprimere la natura umana. Un mondo, se non già un’epopea, dove solo il coraggio della disperazione poteva indurre un uomo ad avventurarvisi dentro, abbandonati scrupoli e princìpi. Dunque orrori, violenze, torture sembra che possano andare bene se subordinati a un fine altro, ipocritamente invocato per aggirare l’ostacolo moralista, a patto di configurarsi come l’anello necessario per condannare quanto le stesse violenze hanno prodotto.
Forse Brimston non passerà alla storia come uno dei migliori cento film da salvare, ma è certo che ha il merito di aver messo a nudo realtà sinora coperte dall’ideologia e dal conformismo, e di raccontarle nel più tradizionale, e perciò nel più efficace, dei modi conosciuti dal cinema: una storia ben ambientata, ben recitata, ben sceneggiata, ben musicata e bene diretta, immune da critiche di retroguardia e con un messaggio chiaro e univoco.
Antonella Mancini