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“A Dangerous Method” di David Cronenberg

Recensione di Antonella Mancini pubblicata per la prima volta il 28 settembre 2011 su “Avanzi di popolo”

Ultimo in ordine di tempo della fortunata serie “ficchiamo il naso nella stanza dei genitori”, con questo film Cronenberg vorrebbe affrontare la rottura portata dalla psicoanalisi nel pensiero moderno. La vicenda narrata è quella di uno dei molti personaggi minori che pur tuttavia hanno contribuito a fare la storia della psicoanalisi: Sabina Spielrein, di cui sino agli anni ’80 si sapeva poco o nulla. La Spielrein approda giovanissima e in piena crisi psicotica alla clinica Burghölzli di Zurigo, dove lavorava Jung, e ne diviene paziente. In seguito si laureerà in medicina, per divenire a sua volta psicoanalista, specializzata in bambini. Tornata in Russia fonderà con Vera Schmitt il famoso Asilo Psiconalitico di Mosca, per finire uccisa dai nazisti nel 1942.

Il film si incentra quasi esclusivamente sulla relazione sentimentale che, stando ai diari della Spielrein, la giovane donna avrebbe intrattenuto con Jung, indulgendo sugli aspetti perversi della di lei personalità e sulla compiacenza e i dubbi di Jung. E siccome quelli sono gli anni della drammatica rottura con Freud, ecco che al duo si unisce Freud in persona, con battutacce ora caustiche ora gigionesche ora da maestro di Real Politik. Di contorno, un giovane medico, matto come un cavallo e fissato col sesso, tale Otto Gross, su quale incautamente Freud aveva riposto le sue speranze di “successione”; poi, altrettanto incautamente, trasferite su Jung. Fra sesso, corna e sculacciate (con una protagonista un po’ sopra le righe) non mancano disquisizioni tecnicistiche, incomprensibili ai più, su sessualità, pulsione di morte e quant’altro: concetti tutti che la moderna psicoanalisi o si è lasciata alle spalle o ha rielaborato in forme meno rozze di quelle proposte dal film, che fra i vari difetti ha anche quello di presentarli astoricamente, per cui si è indotti a ritenere che siano ancora attuali. A questi si sommano considerazioni etiche e deontologiche che nel contesto generale acquistano un irresistibile sapore comico. Ne viene fuori una procedura clinica – il Dangerous Method – prossima a una parodia da operetta, saltata fuori – modello coniglio e cilindro – dai giochi di prestigio mentali di un gruppetto di matti e meno matti, col più furbetto (Freud) che li fa rigar dritti tutti. E questo a voler essere buoni e indulgenti. Se invece seguiamo alla lettera la storia, magari un po’ ottusamente, e ci domandiamo una volta per tutte cos’è questo Dangerous Method, la risposta, stando al film, viene da sé: è una roba per cui per prima cosa si va in psicoterapia, poi, supponendo che faccia bene, per gratitudine o altro, si finisce a letto col/con la terapeuta, a questo punto si hanno le carte in regola per divenire a propria volta terapeuti e, infine, per chiudere il cerchio, si può dare il caso che il primo terapeuta chieda all’ex paziente, ormai terapeuta anche lui/lei, di diventare suo/sua paziente Nel film la variante è data dal fatto che è la moglie dell’ex terapeuta – cioè di Jung – a chiedere all’ex paziente – cioè alla Spielrein – di prendere in trattamento il marito. Sic. In effetti è difficile, anche per il profano, non convenire che di metodo pericoloso (Dangerous) trattasi. Di certo Cronenberg non è questo che si proponeva, ma questo è quanto se ne ricava. Probabilmente nei suoi intenti c’era l’aspirazione a un racconto “oggettivo” dei fatti, a mostrarli come sono (o sarebbero) stati cosicchè, stante un perfetto calligrafismo cinematografico, viene a mancare lo spazio per allusioni, rimandi, non detti, zone d’ombra: la realtà inizia e finisce con le parole dei protagonisti che la descrivono. Peccato che il tema non si presti e che il risultato sia quello di far risaltare gli elementi pettegoli e obsoleti a scapito delle motivazioni e dei tormenti reali che li hanno accompagnati. In sintesi: la superficialità la fa da padrona. Questo film di Cronenberg, anomalo anche rispetto al resto della sua produzione, appartiene a quel tipo di operazione culturale pronta a riversarsi come boomerang su quegli stessi eventi e personaggi che apparentemente vorrebbe mettere in luce. Trama e personaggi sono infatti presentati in modo tale da soddisfare quella forma di curiosità morbosa, peraltro travestita da “conoscenza della verità scientifica”, che si è andata sempre più sviluppando in una con la diffusione selvaggia di un presunto sapere psicologico. E psicoanalitico in particolare. Il tutto all’insegna di una semplificazione buona per il grande pubblico, talvolta con ambizioni persino didascaliche. E non ci sarebbe da stupirsi se – dio non voglia – il film finisse nelle proiezioni scolastiche e nei corsi di formazione per operatori sociali.

Antonella Mancini