Archivio mensile:settembre 2008

VENEZIA 2008: I vincitori della sezione ufficiale e della sezione "orizzonti"

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

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I VINCITORI DELLA SEZIONE UFFICIALE

La Giuria Venezia 65, presieduta da  Wim Wenders e composta da Juriy Arabov, Valeria Golino, Douglas Gordon, Lucrecia Martel, John Landis, Johnnie To dopo aver visionato tutti i ventuno film in concorso, ha deciso di assegnare i seguenti premi:

 
LEONE D’ORO per il miglior film a:
The Wrestler di Darren ARONOFSKY (Usa)

 
LEONE D’ARGENTO per la migliore regia a:
Aleksey German Jr. per Bumažnyj Soldat (Paper Soldier) (Russia)

 
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a:
Teza di Haile Gerima (Etiopia, Germania, Francia)
 

COPPA VOLPI per la migliore interpretazione maschile a:
Silvio Orlando per Il papà di Giovanna di Pupi AVATI (Italia)

 
COPPA VOLPI per la migliore interpretazione femminile a:
Dominique Blanc per L’autre di Patrick Mario Bernard, Pierre Trividic (Francia)
 

PREMIO MARCELLO MASTROIANNI a un giovane attore o attrice emergente a:
Jennifer Lawrence per The Burning Plain di Guillermo Arriaga (Usa)
 

OSELLA per la migliore fotografia a:
Alisher Khamidhodjaev e Maxim Drozdov  per Bumažnyj Soldat (Paper Soldier) di Aleksey German Jr. (Russia)
 

OSELLA per la migliore sceneggiatura a:
Haile Gerima per Teza di Haile Gerima (Etiopia, Germania, Francia)

LEONE SPECIALE per l’insieme dell’opera a:
Werner Schroeter
La Giuria ha deciso di assegnare un Leone Speciale a Werner Schroeter per il complesso dei suoi innovativi lavori portati avanti con tenacia e senza compromessi da 40 anni.

PREMIO “LUIGI DE LAURENTIIS” PER LA MIGLIOR OPERA PRIMA
La Giuria Premio “Luigi De Laurentiis” per la Miglior Opera Prima della 65. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, composta da Abdellatif Kechiche (Presidente), Alice Braga, Gregory Jacobs, Donald Ranvaud, Heidrun Schleef, ha deliberato all’unanimità di assegnare il

PREMIO “LUIGI DE LAURENTIIS” PER LA MIGLIOR OPERA PRIMA a:

Pranzo di Ferragosto di Gianni Di Gregorio (SIC – Settimana Internazionale della Critica, Italia)

Aurelio De Laurentiis e Filmauro assegnano un premio in denaro di 100.000 USD, che sarà suddiviso in parti uguali tra il regista e il produttore. Al regista andrà inoltre un buono di 40.000 Euro da spendere in pellicola offerto da Kodak.

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I VINCITORI DELLA SEZIONE "ORIZZONTI"

La Giuria Orizzonti della 65. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, composta da Chantal Akerman (Presidente), Nicole Brenez, Barbara Cupisti, Jose Luis Guerin, Veiko Õunpuu, ha deliberato all’unanimità di assegnare i seguenti premi:

PREMIO ORIZZONTI:
Melancholia di Lav DIAZ (Filippine)
 
 
PREMIO ORIZZONTI DOC:
Below Sea Level di Gianfranco ROSI (Italia, Usa)
 
 
MENZIONE SPECIALE:
Un Lac di Philippe GRANDRIEUX (Francia)
 
 
MENZIONE SPECIALE:
Wo men (Noi) di HUANG Wenhai (Cina, Svizzera)

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VENEZIA 2008: " Il seme della discordia " di Pappi Corsicato (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

" Il seme della discordia " di Pappi Corsicato (2008)

Recensione di Daniele Clementi

 

 

Siamo alla fine del Festival , potrei recensire con severità e cattiveria il film di Corsicato o addirittura sparando sulla croce rossa fare un paragone impietoso fra il film in questione ed il magnifico film giapponese " Ketto Takadanobaba " girato nel 1937 dal magistrale Masahiro Makino e presentato in versione restaurata pochi minuti dopo il film di Corsicato, ma sarei di una crudeltà inaudita.

Meglio scherzare, giocare con il concetto di recensione e con il concetto di film offrendovi una recensione evasiva in cui la mente ed il corpo del critico sottoscritto si separano e si confrontano su posizioni intellettuali e carnali. Buona lettura e Buon divertimento.

La mente:

Il film comincia con una lunga scena di gambe femminili, tacchi, sederi, andature provocanti che si fondono fra una pubblicità di collant, una scena da filmino sexy italiano anni 70′ ed un supposto sguardo almodovariano, un po troppo basso per essere veramente degno di questo termine.

Il corpo:

Però com’è bella Caterina Murino, protagonista del film, mentre leggiadra e sensuale come una pantera sui suoi tacchi a spillo avanza verso il suo negozio accendendo i sensi maschili più reconditi (magari pure i sensi di qualche spettatrice femminile … ben vengano anche loro).

La mente:

Fin dalle prime scene ci troviamo una sceneggiatura che cerca di emulare la forza delle battute dei film di Almodovar senza riuscirvi e a malapena si distacca ,in peggio purtroppo, dai dialoghi storicamente imbarazzanti di soap come "Un posto al sole".

Il corpo

Però com’è bella Caterina Murino con quei vestitini estivi leggeri attillati e dai colori vivaci, in cui le sue curve si liberano splendidamente.

La mente:

Lo spessore dei personaggi è minimo e la storia rasenta la linea dei vecchi film con Lando Buzzanca. Il "seme della discordia" è proprio il seme maschile che ingravida la povera Murino svenuta dopo un aggressione e che si ritrova a dover fare i conti con il marito Alessandro Gassman che ha appena scoperto di essere sterile, sorvoliamo sullo spreco di attori noti.

Il corpo:

Però com’è bella Caterina Murino mentre provoca inconsapevolmente i suoi futuri aggressori con la sua femminilità e la sua sensualità che dovrebbero sembrare spontanee ma sono forzate a vista d’occhio, ma pur sempre irresistibili per uno spettatore etero maschile in età sessuale attiva.

La mente:

Il film oltre ad avere una storiella esile e deboluccia è ricco di citazioni filmiche da Alessandro Gassman che lascia la moglie incinta di chissà chi parafrasando la battuta di Clark Gable a Vivien Leigh in "Via col vento", alla caduta di una carrozzina da neonato piena di prodotti "Chicco" appena acquistati dalla mamma della protagonista e scagliata da quest’ultima da una rampa di scale emulando la gloriosa sequenza della "Corazzata Potëmkin", fino alla donna che danza scalza sul bancone di un bar indossando solo un costumino di paliette dorate che evoca fortemente Barbara Bouchet nel film di Fernando Di Leo "Milano calibro nove". Un Corsicato che rasenta Tarantino, non potendosi discostare troppo però da un Almodovar che certamente con film simili non potrà mai raggiungere.

Il corpo:

Però com’è bella Caterina Murino mentre sogna nuda di avere un orgasmo e sempre in sogno si vede ricoperta di bianchi gigli nelle parti più intime come l’adolescente dei sogni di Kevin Spacey in "American beauty", ma li erano petali di rosa ed un film dallo spessore ben maggiore, una citazione però più volgarotta dell’originale e meno contestuale… mmm la mente sta prendendo il sopravvento sul corpo …

La mente:

Il film pare più un gioco di scrittura che una storia vera e propria, un filmetto senza tante ambizioni e giocato sull’estetica e sull’erotismo misto a comicità che però non tappa i buchi del racconto, in effetti da un uomo che in passato aveva lavorato con Almodovar in "Legami !", portato la sua opera prima a Berlino (Libera – 1993),richiamato l’attenzione a Venezia nel 1995 con "I buchi neri" (film che aveva portato in giro per il mondo), presentato i suoi video alla Tate Modern ed al Centro Pompidou,messo in scena al San Carlo di Napoli la "Carmen" e proposto una versione stimolante della "Voce umana" di Cocteau ci si aspettava qualcosa di più di una cazzata erotica da arena estiva di ferragosto.

Il corpo:

Però com’è bella Caterina Murino con il suo piccolo accappatoio verde che mostra le lunghe e lisce gambe, o quando seduta sull’alfetta provoca Gassman quasi come farebbe una stellina dei film di Brass … no, basta, anche Brass, non riesco proprio. La Murino è bella ma la Bigelow con il suo cervello, il suo sguardo pungente ed il suo carattere registico di ferro è meglio, si meglio un cinema di cervello che un film di erezione adolescenziale.

Clicca qui per leggere la recensione di Antonella Mancini sullo stesso film

VENEZIA 2008: " Il seme della discordia " di Pappi Corsicato (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

Note da VENEZIA
di Antonella Mancini
 

" Il seme della discordia " di Pappi Corsicato (2008)

 

 

Mi sto ancora chiedendo se Corsicato abbia voluto fare sul serio oppure prendersi gioco della commedia rosa, o pigliare per i fondelli lo spettatore. Forse tutte e tre le cose insieme? Come che sia, fallisce in tutte e tre, dandoci quello che in assoluto non esito a ritenere il più brutto film, fra quelli visti, di questa già brutta 65° rassegna veneziana. Ed è talmente brutto, talmente malfatto, talmente sbagliato che, una volta rassegnati all’evidenza e stabilito, vuoi per pigrizia, vuoi per masochismo, di non scappare dalla sala, si finisce per entrare nello spirito del film e tirar via qualche risata alle spalle del regista e forse anche qualcuna da lui  prevista.
La storia narra di una bella figliola (Caterina Murino), piena di iniziative e di vitalità, che scopre in contemporanea e di essere incinta e di avere un marito sterile (Alessandro Gassman). No, non è come malignamente state pensando, perché la signora non ha mai tradito il marito, che invece non se lo fa dire due volte per lasciare quel fiore incompreso e trascurato di moglie e darsi invece alle sue grasse e sfiorite amanti. Il mistero di tale controversa gravidanza verrà sciolto dalla stessa protagonista, trasformata in detective in una parentesi noir di questa vicenda rosa; e tutto finirà per il meglio. Non dico altro per non rovinare il piacere e la suspence, caso mai qualcuno si volesse così tanto male da prendersi la briga di andare a vedere il film.
E’ un soggetto che nelle mani di Almodovar potrebbe strappare il capolavoro. Corsicato assuma fra i suoi modelli anche Almodovar, però non è Almodovar, con risultati prevedibilmente disastrosi. Si possono imitare molti generi cinematografici, magari originandone di nuovi oppure facendo dei modesti cloni. Nel nostro caso il richiamo inevitabile va al porno prima maniera (vedi caso lo stesso genere da cui proviene Almodovar), di cui il film di Corsicato profonde a piene mani non pochi ingredienti: attori che visibilmente non sanno recitare (ma forse è fatto apposta), né spogliarsi, né eccitare veramente; cattivo gusto, allusioni, doppi sensi; volgarità diretta e dichiarata ma incapace di ferire o seriamente violare. Persino You Tube ci ha abituato a ben altro.
Alcune chicche: già il titolo è un programma perché gioca sul doppio senso: qui il seme non è metaforico ma reale (ahi noi). La gitarella domenicale con foratura di gomma, marito che la cambia e moglie che inganna il tempo semisdraiata sul cofano dell’Alfa Romeo spyder con le gambe all’aria stile pubblicità anni ’60 (segue sveltina tra i campi). Il concepimento rappresentato da una miriade di fiori di giglio (giglio!) che uno per uno vanno a coprire le pudenda del corpo nudo della protagonista addormentata. La capigliatura romanticamente dilatantesi sul cuscino a mo’ di onde, mentre la cinepresa indulge, sempre sul di lei corpo nudo, adesso fasciato da cafonissime lenzuola di seta azzurra. La citazione dalla mai lasciata in pace la corazzata Potëmkin, con tanto di carrozzina piena degli acquisti fatti per il futuro pupo dalla nonna e spinta giù per le scale di un improbabile centro direzionale dalla stizzita protagonista. La generosa profusione di culi e di tette “ti vedo non ti vedo” che invadono lo schermo a più riprese senza tuttavia mai concedersi. L’ostentazione della cretineria dei personaggi femminili (cast di tutto rispetto) che rimanda a veline e letterine per dirci non si sa bene cosa, ma che serve a sottolineare per contrasto la purezza gigliacea e il tormento interiore della peraltro già scollacciata protagonista. La quale, così abbigliata e con vertiginosi tacchi a spillo gira incautamente di notte per una città deserta e ricca di bui anfratti, incurante – beata ingenuità – di quelli che potrebbero essere (e lo saranno: Corsicato non ci fa mancare niente) incontri fatalmente pericolosi.
Ho sentito dire da qualche parte che il film vorrebbe affrontare in maniera “leggera” temi sociali di fondo quali l’aborto e l’inseminazione artificiale e suscitare un dibattito in proposito. Mi tocco per vedere se esisto. 

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VENEZIA 2008: " The hurt locker " di Kathryn Bigelow (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

" The hurt locker " di Kathryn Bigelow (2008)

Recensione di Daniele Clementi

 

 

Il nuovo film di  Kathryn Bigelow  parla di dipendenza, dipendenza dalla guerra, dalla scarica di adrenalina che produce il corpo quando è a rischio della vita, totalmente ambientato in Iraq, tranne pochi secondi negli Usa, il film racconta il conto alla rovescia per la fine dell’incarico di tre uomini assegnati alla forza artificieri, due soldati marines (uno specialista ed un sergente), e l’artificiere che hanno il compito di proteggere durante le operazioni di individuazione ed eventuale disinnesco delle bombe terroriste.

La storia comincia introducendoci un magnifico artificere, sicuro di se e risoluto nell’azione, interpretato da un convincente Guy Pearce che però muore pochi minuti dopo l’inizio dimostrando che non è solo questione di talento e professionalità e che in Iraq ogni certezza è appesa al filo della sorte. Seguiamo quindi lo sconosciuto Jeremy Renner che prende il posto del personaggio di  Pearce e si rivela ben presto malato di dipendenza alla guerra, la patologia del protagonista però è descritta con raffinata e voluta ambiguità, per tutto il film è posta in secondo piano, si vede  e non si vede, rendendo il soggetto un protagonista ambiguo e suggestivo, al suo fianco il ritratto di due soldati sani e normali che talvolta rischiano proprio per la loro lucidità di essere scambiati come codardi o burocrati, indimenticabile la partecipazione di Ralph Fiennes nel ruolo del contractor che arresta due terroristi segnalati nelle famose carte da gioco dell’Iraq e li perde poco dopo perdendo la sua stessa vita e riconfermando il precetto che in guerra nessuno è predestinato all’eroismo o garantito dal suo status quo.

Un film di guerra dunque che nella resa magistrale dell’azione e delle battaglie, rivela una visione oggettiva ed obbiettivaente negativa del conflitto che descrive, indimenticabile il disinnesco di un autobomba o la lunga scena dell’agguato nel deserto che evoca senza mai copiare il cinema western degli anni 50′.

Bigelow ci mostra un Iraq ostile o nel migliore dei casi indifferente alla guerra degli americani, sono emblematiche le sequenze in cui gli iracheni osservano gli americani disinnescare le bombe come se fosse uno spettacolo e con un sottile sguardo di sfida come se tutto questo non riguardasse loro ma solo i marines ed i loro nemici fondamentalisti.

L’autrice pur ispirandosi ad un libro e basando tutta la struttura del racconto sugli appunti del giornalista enbended Mark Boal (già ispiratore del film "Nella valle di Elah"), mostra un film tutt’altro che schierato dove gli americani in guerra riescono a malapena a salvare loro stessi, figuriamoci gli iracheni, e devono occuparsi quasi esclusivamente di portare a casa la pelle e sfidare la sorte ogni volta che lasciano la base, le missioni non hanno funzione o senso, se non quella di sfidare la morte, in una terra che loro stessi non vogliono conoscere e che di risposta non vuole accoglierli, così come il protagonista affonda le mani nelle viscere di un bambino bomba per disinescare l’ordigno, l’autrice affonda il suo sguardo nelle viscere della sacralità del patriottismo americano onorando chi rischia la vita per la bandiera ma evidenziando senza ideologismi, retorica o manipolazione politica l’oggettiva inutilità della presenza degli americani in Iraq.

Una regia con le palle, anche più grandi della media se si pensa che la regista è una donna.

Clicca qui per leggere la recensione di Antonella Mancini e Paolo Strigini sullo stesso film

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VENEZIA 2008: " The hurt locker " di Kathryn Bigelow (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

Note da VENEZIA
di Antonella Mancini e Paolo Strigini
 

" The hurt locker " di Kathryn Bigelow (2008)

 

 

Iraq 2008. Un film sulla guerra, non un film di guerra né contro la guerra. Ritmo, suspence, due ore abbondanti che volano per mostrarci la guerra attraverso un unico aspetto: il lavoro dell’artificiere sul campo di battaglia. Questa scelta consente di mozzare il fiato quasi ininterrottamente, con un ritmo frenetico: ce la farà Jeremy a rintracciare e tagliare il filo giusto, a riuscirci prima che un timer nascosto o un cecchino in agguato faccia saltare tutti in aria, a cominciare da lui? E’ sempre il sergente Jeremy a rischiare la pelle più di tutti, invano gli altri – specialmente il nero – cercano di trattenerlo, accusandolo di rischiare la pelle di tutta la squadra per soddisfare la sua adrenalina. Ma, come ci viene spiegato nei titoli di testa, “la guerra è una droga”, e quindi solo il rischio estremo può soddisfare i drogati. Si insultano fra loro, questi soldati e arrivano anche a picchiarsi, ma in fondo ci vengono presentati tutti come bravi ragazzi; forse sembrano anche un po’ troppo gentili con gli Irakeni (un colonnello medico, bravo a trattare l’isterismo e l’angoscia dei soldati, salterà in aria proprio per un eccesso ridicolo di cortesia imparata a Yale). Viene da pensare che la regista sia, se non “embedded” come gli unici giornalisti ammessi a raccontare la guerra guerreggiata degli USA, certo – e comprensibilmente – vicina col cuore a questi ragazzi che aspettano la fine della ferma di un anno nell’inferno. Non si direbbe, ma in fondo la regista è una donna, ed è un’americana democratica. E’ vero che in Redacted (mostrato a Venezia l’anno scorso e circolato poco o nulla nelle sale) Brian de Palma non soffriva di questi ritegni. Ma lui ricostruiva una specie di documentario-intervista su un crimine di guerra, come quest’anno l’israeliano Z32. Forse per fare un film contro la guerra e perché la gente lo veda oggi occorre scegliere un episodio che sia esplicitamente criminale ?

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VENEZIA 2008: " BirdWatchers – La terra degli uomini rossi " di Marco Bechis (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

" BirdWatchers – La terra degli uomini rossi " di Marco Bechis (2008)

Recensione di Daniele Clementi

 

 

I "BirdWatchers" sono i turisti che vengono ospitati dai fazenderos brasiliani nelle loro case ed accompagnati per un fine settimana fra le loro terre in cerca di specie rare di uccelli e di qualche emozionante incontro con gli antichi indios, l’incontro avviene sempre ma non c’è nulla di antico in quelli che apparentemente vengono identificati come indios, si tratta in realtà di brasiliani dalle origini indio ma oramai integrati (che lo vogliano o meno) nel sistema economico e sociale del Brasile, attori che dopo l’esibizione per fare contenti i turisti, reindossano i loro abiti da civilii e ritornano alla loro vita, un esistenza fatta di povertà ed umiliazioni, perchè sono pur sempre discendenti degli indios e come tali "paria" nella scala sociale brasiliana. Bechis impiega inspiegabilmente più di tre anni per sintetizzare in una sceneggiatura quello che è leggibile su molti siti di ONG che operano in Brasile e non riesce nemmeno a dare una visione soddisfacente perchè incompleta, frammentaria e sfuggevole proprio sui temi più interessanti della questione "indio vagabondi – fazenderos".

Gli eredi brasiliani della cultura indio sono mostrati attraverso tre generazioni: i più anziani vorrebbero tornare alle terre dei padri (che sono oramai deserti di fango confinanti con il ciglio di strade asfaltate) ma riescono solo a generare baraccopoli ibridate con qualche dettaglio artigianale di quelli che furono gli antichi villaggi indios, gli adulti di età media invece sembrano disillusi e proiettati verso guadagni veloci e lavori precari e senza futuro in eterno bilico fra il rispetto degli anziani e la legge del precariato della mondializzazione, i giovani infine sono le vere vittime di questa etnia che tarda ad integrarsi sia per razzismo esterno che per rigidità interne, i ragazzi soffrono il conflitto di desiderare scarpe alla moda e telefonini come il costume moderno impone loro mentre gli anziani li vorrebbero sciamani canterini o cacciatori di macachi e gli adulti li vorrebbero semplici lavoratori precari, operai in nero sottopagati dai fazenderos che portano a casa un pugno di cibo e la dignità sotto le scarpe. Spesso questi ragazzi ,schiacciati dal giudizio di una micro comunità indio chiusa mentalmente  e alla deriva, trovano nel suicidio la sola via d’uscita ad una vita alienante e di eterna povertà.

Dall’altra parte ci sono i fazenderos, che cercano di porsi di fronte ai turisti come portatori di una cultura e di un patrimonio storico e naturailistico che il governo brasiliano sembra avere rimosso e che organizzano spettacoli con indios vestiti come una volta che si fingono ancora selvaggi guardando in realtà a questi ultimi come zingari senza morale ed insetti nocivi per le loro terre.

L’unica speranza sembra essere per Bechis l’integrazione fra le due caste, raffigurata in qualche modo anche nel manifesto del film, l’unione carnale ed affettiva fra la figlia di un fazenderos ed un giovane allievo sciamano che si infrange con estrema facilità quando alcuni fazenderos commissionano l’omicidio del capo della baraccopoli abusiva impiantata nel terreno del padre della ragazza.

Bechis dice tante cose senza però approfondire nulla più di tanto, non lascia speranza se non nella sequenza finale in cui il giovane brasiliano ancora indio per metà sconfigge il demone della foresta e sfugge alla tentazione del suicidio.

Un film lento, didascalico e di troppo facile lettura, con qualche venatura ideologica nelle scene del calvario dei mezzi indio che occupano il terreno o nella scena della morte del loro capo, l’uso di brani religiosi cristiani durante quelle sequenze, scelta che evoca il primo Pasolini, stride rispetto alla glacialità dello sguardo di Bechis sul resto del film e sembra essere una forzatura per commuovere lo spettatore alla velocità di un fast food. Si poteva dire di più e trasmettere di meglio.

Clicca qui per leggere la recensione di Antonella Mancini sullo stesso film

VENEZIA 2008: " BirdWatchers – La terra degli uomini rossi " di Marco Bechis (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

Note da VENEZIA
di Antonella Mancini e Paolo Strigini
 

 " BirdWatchers – La terra degli uomini rossi " di Marco Bechis (2008)

 

 

Un film che sta facendo parlare molto di sé: presentato e accolto come il più “impegnato” della Mostra, si è da subito posizionato come un “bel” film senza incontrare grossi ostacoli, in una rassegna, questa 65° di Venezia, che ad oggi può tranquillamente qualificarsi come la più brutta e sgangherata degli ultimi anni. Il film di Bechis è un film onesto, con un inizio, uno svolgimento e un finale “aperto”, il che è già molto, dato il tema; ma è anche un film privo di slanci registici e di sorprese, diremmo se non noioso, almeno piatto e prevedibile. E magari non privo di emozioni, ma incapace di suscitarne di nuove e profonde.
Poi c’è il contenuto, decisamente “politico”, che rimanda alle questioni della mondializzazione e che viene esemplificato nel delicato rapporto tra uomini bianchi e “uomini rossi”, tra fazenderos e indios. Bechis è bravo nel non prendere le parti degli uni o degli altri, presentandoci una situazione densa di contraddizioni, rapporti ambivalenti, intrecci difficili da sbrogliare, ma mostra i limiti di una lettura che può risultare semplicistica, talvolta acritica, a tratti nascostamente faziosa. Invece ci fanno sorridere gli indios di Bechis quando si riprendono la “loro” terra accampandosi lungo una strada asfaltata di grande traffico, ignorando la foresta da cui provengono e che è appena 200 metri più in là, o quando, ormai divenuti incapaci di cacciare, l’unica bestia che riescono a prendere è una vacca sfuggita alla stalla del fazendero. La foresta si è ridotta a fare da sfondo ai travestimenti da selvaggi per la gioia dei turisti, Birdwatchers appunto. E fa pensare il fatto che i giovanissimi suicidi vengano interrati coi loro simboli demoniaci di corruzione: il telefonino, la scarpa da ginnastica. Contro tutta questa corruzione tuonano lo sciamano e il capo tribù. Invano. Ora, non si tratta di decidere (dal nostro punto di vista di bianchi, più o meno afflitti dai sensi di colpa) chi sono i buoni o i cattivi. Quello che vorremmo capire è se è possibile una conciliazione o almeno una coesistenza fra le due culture, o se ognuna delle due è condannata al suo proprio destino autodistruttivo. Insomma, ci sarebbe  piaciuto che Bechis, se non la soluzione, ci avesse presentato esplicitamente il problema.

VENEZIA 2008: " Pinuccio Lovero. Sogno di una morte di mezza estate " di Pippo Mezzapesa (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

Note da VENEZIA
di Antonella Mancini
 

" Pinuccio Lovero. Sogno di una morte di mezza estate " di Pippo Mezzapesa (2008)

 

 

A mezza via tra documentario e fantasie surreali, tra film e corto (62’), il lavoro del regista pugliese chiude in bellezza “La settimana della critica” ed è una delle meglio cose viste in questo brutto Festival.
Pinuccio Lovero realizza a 40 anni il sogno della sua vita: diventare “guardiano a livello cimiteriale”, cioè becchino; ma dal giorno della sua assunzione nel camposanto di Mariotto, frazione di Bitonto, paese natale, la gente ha smesso di morire, il che provoca l’ostilità di quanti campano sulla morte altrui – fioristi, pompe funebri etc. – e la gioia riconoscente dei parenti dei defunti che ora trovano finalmente le tombe dei propri cari linde e ripulite. Ma Pinuccio Lovero è anche altro, suona nella banda e non si risparmia, elargendo generosamente le proprie energie anche allo spettatore, trascinato a ridere per le esilaranti contaminazioni tra italiano e pugliese e per le trovate irresistibili del protagonista. L’attore che lo impersona è… Pinuccio Lovero: un gioco di parole o un personaggio che recita se stesso?
Ben girato, con un buon ritmo e le poche cadute compensate dall’espressività del protagonista (che non cade mai nella macchietta!), buona la fotografia, difficilmente lo vedremo nei consueti circuiti. Nel caso, è assolutamente da non perdere.

VENEZIA 2008: " Z32 " di Avi Mograbi (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

Note da VENEZIA
di Paolo Strigini
 

" Z32 " di Avi Mograbi (2008)

 

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Insolito. che un film intimista parli di un crimine di guerra. Si tratta dell’uccisione di due poliziotti palestinesi da parte di un ragazzo israeliano in un’azione che si chiama ed è “vendetta”. Vendetta per la morte di sei genieri israeliani uccisi in un agguato della seconda intifada. Il ragazzo è stato arruolato in un’unità di elite, sballottato per mesi in viaggi lunghissimi durante i quali i soldati dormivano, per svegliarsi in posti sconosciuti. L’addestramento consisteva soprattutto in un martellante ammonimento che anche un bambino di cinque anni può essere un terrorista (e, come paradossale conferma, i soldati vedranno  quattro ragazzini arabi che saltano in aria mentre vanno a scuola).
Ma il film si snoda col ritmo e lo stile di un un rito ebraico, monotono  e ripetitivo, sia nei brani di interviste che nelle canzoni salmodianti che che li commentano come un coro greco. Si può fare un film, o una canzone, o un’opera d’arte su un crimine? Si può domandare comprensione o addirittura perdono (magari invocando l’addestramento e la propaganda o gli ordini superiori)? I protagonisti dell’intervista –il soldato che ha accettato di testimoniare e di rispondere alle domande della sua ragazza che vuole sapere e scava e interroga, anche con gli sguardi e i silenzi- non hanno risposte. Quello che più angoscia entrambi è che quando finalmente entrano in azione, i soldati sono contenti (e addirittura provano piacere) di sparare e di uccidere. La ragazza sottolinea il fatto che il soldato prima chiedeva comprensione, ora chiede perdono, il che implica l’ammissione di aver commesso un crimine. Ma il perdono non si può dare, perché né la confessione né il pentimento possono cancellare una colpa: gli ebrei non sono cattolici – fra loro non usa, come fra noi, diventare  “pentiti” strumentalmente. Non è facile essere ebrei israeliani, e nemmeno fare un film su un conflitto come quello fra loro e i palestinesi, che non si vedono mai. Il conflitto di cui si parla qui è quello dentro un assassino e a chi gli sta accanto e gli vuol bene

VENEZIA 2008: " The sky crawlers " di Mamoru Oshi (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

" The sky crawlers " di Mamoru Oshi (2008)

Recensione di Daniele Clementi

 

 

In un possibile prossimo futuro, le grandi multinazionali organizzano una guerra perenne per mantenere l’ordine sulla terra e l’equilibrio del consumo, per evitare di decimare i loro preziosi consumatori però scelgono di clonare all’infinito dei guerrieri e militari perfetti, con il cervello di adulti e le fattezze fisiche di bambini o adolescenti, perfetta carne da macello, apatici e privi di forti reazioni emotive. Sebbene abbiano un corpo immortale ma incapace di svilupparsi i "Kildren" posso concepire dei figli, che non ereditano però l’immortalità dei genitori ma riportano il genoma allo stadio umano tradizionale. Ogni volta che un pilota muore, ne arriva subito dopo uno identico pronto a sostituirlo con l’esperienza militare del precedente ma privo dei ricordi, questi ragazzi clonati sono però propensi all’autodistruzione e considerano la vita solo una fase apatica ed irrilevante in cui doversi muovere. Unico rivale temuto da tutti i ragazzi cloni è il "maestro", il più potente di tutti i guerrieri, il padre genetico di tutti i cloni che riesce inesorabilmente ad eliminare tutte le sue copie in qualsiasi battaglia nei cieli. Un film ‘d’autore più che un cartone animato dove Oshi riporta le sue tradizionali ossessioni linguistiche, e le spinge ad una naturale evoluzione metascientifica. Se i conflitti esistenziali nei suoi precedenti "Ghost in the shell" ed "Innocence" erano impersonati da androidi e cyborg che usavano la loro coscienza binaria per trascendere il loro freddo corpo metallico, qui Oshi fa il processo contrario, la trascendenza è quella della carne e la ricerca spirituale e filosofica e ridotta alla noia indotta dalla perenne rigenerazione, rispetto ai cyborg dei film precedenti questi cloni però rivelano l’assenza di stimolo vitale, ed ormai si rivelano più di altre creature di Oshi fantasmi in gusci di carne. Un film che si avvale di magnifiche scene di battaglia aeree in cui vengono usate rielaborazioni fantasiose di tradizionali aerei da guerra del secondo conflitto mondiale, con una qualità della computer grafica che rende difficile distinguere il virtuale dal reale. L’animazione bidimensionale invece sembra ridotta al limite, i movimenti sono quasi inesistenti ed i personaggi sono per lo più silenziosi e statici, questo rende lo spettacolo tremendamente noioso ma non privo di spunti interessanti. L’ambientazione poi si rivela un evoluzione della recente steampunk, mantenendo i codici del genere ma rinunciando al gusto ottocentesco per una visione anni 30-40.

Se Hayao Miazaky, Katsushiro Otomo e Satoshi Kon spingono , ognuno alla sua maniera, il cartone giapponese verso il kolossal imponente, colorato ed adrenalinico, Oshi rifiuta la convenzione e sprofonda nel grigio e nella staticità, tavolta quasi mortale, per un racconto più cerebrale che sensoriale ma certamente degno di segnalazione.

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