Il western secondo Sidney Pollack
“ The scalphunters “ di Sydney Pollack (1967)
“ Jeremiah Johnson “ di Sydney Pollack (1972)
Recensione di Daniele Clementi
Sidney Pollack ha esplorato il genere western solo due volte nel corso della sua carriera, la prima nel 1967 con un film a metà fra la commedia ed il classico western movie, la seconda volta in modo decisamente più impegnato nel 1972. Il primo western di Pollack era una tipica avventura fracassona destinata all’intrattenimento per famiglie con qualche spunto interessante nel contesto soci-politico.
Joe Bass (Burt Lancaster) è un cacciatore di pelli, giunta la primavera lascia le sue montagne ed attraversa i territori indiani per vendere in città il frutto del suo lavoro invernale. Durante il suo viaggio è bloccato da una tribù indiana che lo costringe a barattare le sue pelli in cambio di uno schiavo in fuga adottato da una tribù apache massacrata durante una faida interna. Joe Bass si ritrova pertanto costretto a rinunciare al suo lavoro per uno schiavo che non vuole e con cui non vuole avere nulla a che fare. Determinato a riprendersi le sue pelli Joe Bass insegue gli indiani a distanza in attesa che si ubriachino con il barile di rhum nascosto fra le pellicce. Costringe lo schiavo a seguirlo con le intenzioni di poter vendere tutta la “merce” (sia quella morta che quella viva) appena giunto in città. Purtroppo il nostro eroe non ha fatto i conti con la banda di gringos che ispira il titolo del film. I cacciatori di scalpi (il cui capo non a caso è il mitico e pelatissimo Telly Savalas) aggrediscono ed uccidono gli indiani prima che Joe possa fare qualcosa e si portano via sia gli scalpi dei pellerossa che le preziose pelli che il cacciatore stava inseguendo. Il film prosegue raccontando l’odissea di Joe Bass e del suo schiavo all’inseguimento delle pelli in viaggio verso il Messico. La storia, già piuttosto avvincente è perfezionata da alcuni dettagli tanto brillanti quanto divertenti. Lo schiavo, infatti, è molto più colto del suo padrone, sa leggere, scrivere, conosce la storia ed è capace di sostenere trattative politiche ed economiche, anche gli indiani di questo film sono molto bravi in quanto a capacità di baratto ed ironica arguzia e l’etnia più avida, incolta ed animalesca si rivela proprio la razza bianca che domina la frontiera americana con tanto piombo e poco cervello.
Resta indimenticabile la sequenza in cui lo schiavo spiega a Joe Bass che a causa delle sue origini inglesi è anche lui ,di fatto, figlio di schiavi poiché un certo italiano di nome Giulio Cesare obbligò i suoi antenati in schiavitù alcuni secoli prima. Un film western molto equilibrato con tante trovate intelligenti e persino qualche momento di raffinata costruzione filmica, merita una breve citazione finale la presenza divertentissima di Shelley Winters.
Da questo western possiamo leggere i primi frutti della rivoluzione culturale americana che nel 67’ combatteva culturalmente la paura dell’integrazione razziale e la rivalutazione dei nativi americani.
Un film apparentemente semplice sul piano linguistico ma molto ricco e complesso sul piano della stratificazione dei contenuti, un film molto politico e come tale molto western dove la vecchia regola di John Ford di nascondere i contenuti in una robusta imbracatura da film di genere si dimostra elaborata e persino perfezionata.
Purtroppo questo tipo di tecnica di cinema a molteplici livelli non era troppo compreso in Europa (capita a tutti di sbagliare !) e negli anni 60’ ed all’inizio degli anni 70’ questi film non erano presi in considerazione dai festival del cinema perché considerati inadeguati alla natura di una manifestazione del genere. Nel 1972 fu proprio il secondo film western di Sidney Pollack a segnare la morte di questa politica culturale e ad aprire le porte dei festival europei al cinema di genere.
Il secondo western di Pollack sembrava destinato all’oblio, infatti, quando i dirigenti della Warner Brothers videro il girato di “Jeremiah Jhonson” pensarono di abbandonare l’impresa e lasciare il film addirittura senza montaggio. Il problema consisteva nella diversità di un film che negava i vecchi canoni del cinema western per esaltare principi narrativi e sociali che fino a quel momento non erano così scontati dentro ad un film western. Fu così che si tentò di salvare il progetto cercando di ottenere l’uscita del film al Festival di Cannes, aprendo così le porte ad un target più capace di comprendere il progetto. Fu solo dopo un enorme lavoro che i selezionatori del festival riuscirono a vedere questo film ed inserendolo in concorso cambiarono il modo di vedere e considerare il cinema di genere. Un traguardo importante e ormai dimenticato.
Il film “Jeremiah Johnson” è purtroppo noto in Italia come “Corvo rosso non avrai il mio scalpo”, scrivo “purtroppo” perché il titolo seppure molto affascinante non rispetta né i contenuti né i personaggi del film. Il personaggio di corvo rosso nel film originale non esiste, il nome può evocare a fatica il primo indiano incontrato da Jeremiah (Robert Redford) ma nella versione originale questo personaggio è chiamato in lingua indiana "Paints His Shirt Red", inoltre questo personaggio (unico papabile corvo rosso) è uno dei pochi indiani di tutto il film a non mostrarsi ostile verso il protagonista, ben lungi pertanto dal desiderare lo scalpo di Jeremiah.
Rispetto al suo primo western Pollack mostra una sorta di regressione sul modo di raccontare gli indiani, o forse possiamo parlare di una presa di coscienza che rende lo sguardo del regista più disilluso. Gli indiani non sono più totalmente buoni o cattivi, si rivelano invece molto simili ai coloni, nella loro barbarie e nella loro incapacità di superare le convenzioni del loro costume per poter capire la diversità del loro prossimo come se l’intolleranza e la violenza che nasconde l’incomunicabilità culturale e spirituale fosse una prerogativa innata dell’uomo, latente nella sua natura a prescindere dalla propria infrastruttura sociale. Gli indiani di questo film possono essere colti o ignoranti, stupidi o profondi, cattivi e buoni allo stesso tempo e forse per la prima volta un regista cerca di mostrare le loro ragioni anche di fronte ad azioni eticamente ingiustificabili mostrando quanto può essere diverso il concetto di giusto o sbagliato fra diverse culture distanti ed opposte. Quello che incuriosisce in ultima analisi nei due film è che in entrambi i casi i protagonisti sono cacciatori di pelli, entrambi vivono nelle montagne americane ed entrambi hanno un rapporto con la natura più profondo e definito di quello che hanno con le società degli uomini, entrambi sono piegati ad una legge diversa da quella dell’uomo bianco o del pellerossa, l’unica legge che Joe Bass e Jeremiah Johnson conoscono e si sentono tenuti a rispettare è quella della montagna, una legge ancestrale ed impietosa casuale ma irreversibilmente efficace nella sua mortale perfezione.