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Venezia 2010: "La pecora nera" di Ascanio Celestini

VeneziaEppure a me piace Ascanio Celestini. E molto. Mi piace il suo modo di fare teatro, la riscoperta e il coraggioso recupero della figura del cantastorie, le nenie, le iterazioni, le libertà di spazio e tempo che questo ruolo richiede. Ruolo che Celestini interpreta come missione, unico, nel panorama degli artisti italiani, a condurlo con affettuosa naturalezza. Così facendo egli riesce ad evocare in chi ascolta sentimenti profondi e un po’ perduti, misti a temi di attualità e di impegno sociale. Un cantastorie appunto.
 Mi dispiace invece, e molto, che il suo ultimo lavoro – La pecora nera – “trasposto” in cinema non regga. Non regge come film né come storia.
Come film, nella trascrizione per immagini, ritmi, suoni, ritornelli, l’alternarsi di passato e presente, perdono la loro forza suggestiva per diventare una banale traduzione visiva che si stempera nella descrizione “oggettiva” e incongrua di fatti ed eventi scoordinati tra loro. Una cosa è infatti “cantare” le gesta, altra cosa è “narrarle”. Ripetizioni e ritorni tematici nel contesto filmico non rimandano al “cantar gesta”, ma risultano appiattiti sino a rasentare la noia.
Come storia è poco credibile e saltella di qua e di là. Non perché i nostri manicomi (e i nostri attuali Servizi psichiatrici) non siano stati (e non siano) affollati di ragazzi e ragazze fatti “impazzire” artificiosamente in conseguenza di carenze sociali e familiari, ma perché le cose vanno un po’ diversamente dal racconto cinematografico di Celestini. Fra le altre cose, il bravissimo ragazzino che lo impersona da piccolo è, sia fisicamente sia nei comportamenti, poco credibile come aspirante matto. Lo sarebbe stato già di più il goffo e grasso, ma vincente, compagno di scuola Maurizio. Capisco che Celestini voglia parlare della follia in modo allusivo, suggerendo il dramma interiore piuttosto che sbatterlo in faccia allo spettatore; invece si perde in tanti piccoli episodi che di per sé significano poco, come ad esempio quello di mangiare i ragni, o le vessazioni psicologiche e fisiche legate ai fratelli: non si diventa matti per questo, e neanche lo si diventa se si è un po’ tonti come sostiene la maestra, specie con una nonna accudente e in fondo calda come la sua. Se il monologo del protagonista, grazie alla sua arte, è capace di dare un “senso” unitario ai tanti frammenti di vita, trasposto in cinema diventa una storia sconnessa che non si vede dove vuole andare a parare. Potrebbe essere solo un problema di regia?
Insomma, quest’opera prima ci ha deluso e immalinconito.

Antonella Mancini