Archivio mensile:Maggio 2013

“Manuscripts don’t burn” di Mohammad Rasoulof (Cannes 2013)

Questo film è un fantasma, un clandestino che il Festival di Cannes non ha mai formalmente annunciato, un film non presente nei programmi o nei documenti ufficiali del festival che compare all’improvviso, a chiusura della manifestazione, per sfuggire dalle maglie della censura iraniana. Mohammad Rasoulof racconta con coraggio ed inquietante chiarezza il massacro prima morale e poi fisico di intellettuali perpetrato da un’ufficio speciale di censura iraniano. Un film basato su fatti, omicidi e violenze reali che racconta come vivono le menti più elevate della cultura iraniana e come sono controllate, torturate ed eliminate quando il loro pensiero prende la forma di un’opera d’arte. La banalità del male è raffigurata da due esecutori che seguiamo passo dopo passo nei problemi quotidiani di famiglia e nell’organizzazione della violenza e dell’omicido. Il dolore della cultura umiliata e violata compare invece nella descrizione commovente e straziante di vecchi scrittori che disperatamente nascondono i loro manoscritti o li usano come merce di scambio con la censura per sentire una sola volta la voce al telefono di una figlia che gli è proibito frequentare. Rasoulof ci rivela anche altri piccoli squallidi ed inquietanti retroscena del male della dittatura come la scoperta che la Coca Cola sia la bevanda preferita dai censori ed i sicari del regime: la bevanda della repressione. Il regista ci rivela che anche facebook è permesso ma controllato in Iran per avere un censimento completo dei dissidenti. Gli intellettuali così vivono di scritture segrete su carta dei loro pensieri, compositori clandestini di poesie e racconti proibiti. Un film terribile e straziante, importantissimo storicamente e culturalmente.

Daniele Clementi

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“Grisgris” di Mahamat-Saleth Haroun (Cannes 2013)

Un gris-gris è un amuleto religioso vudù che protegge e porta fortuna a chi viene regalato o comprato. Il protagonista del nuovo film di Mahamat-Saleth Haroun di fortuna sembra averne molto bisogno fin dalla prima scena. Un giovane di 25 anni del Ciad nonostante una gamba spezzata, non ha mai smesso di sognare di diventare un danzatore. Deve rinunciare anche a questo sogno remoto quando suo zio si ammala e la famiglia non ha i mezzi per curarlo. Il ragazzo decide così di lavorare per dei trafficanti di petrolio nel tentativo di raccogliere i soldi per curare il parente. Grisgris dovrà fare i conti con la polizia, il crimine organizzato, la prostituzione della ragazza che ama e l’estrema povertà in cui vive prima di decidere di essere padrone della sua vita e del suo destino a prescindere dalla violenza e la repressione a cui la povertà lo costringe. Fra le scene memorabili si ricordano quelle di danza del protagonista (bravissimo nonostante la sua disabilità,) e la scena del saluto alla madre in cui Grisgris getta dei fiori dal ponte sotto il quale ogni giorno la madre fa la lavandaia, un saluto silenzioso e di meraviglioso amore. Uno dei film più belli del Festival di Cannes 2013 che insegna a chi ancora non lo sapesse che l’Africa danza in questo mondo più e meglio di chi la sfrutta e la umilia ogni giorno.

Daniele Clementi

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“Hidden beauty” (Aka “Millefeuille”) di Nouri Bouzid (Tunisia 2012)

Nouri Bouzid è un cineasta tunisino molto coraggioso, lo è sempre stato fin dal provocatorio “Uomo di cenere” che raccontava il disagio di essere omosessuali in Tunisia. Bouzid è anche l’uomo che ha fatto scoprire al mondo il talento della regista Mouflida Tlati, autrice dei meravigliosi “Silences du palais” e “La saison des hommes”. Dopo la primavera araba Bouzid torna a girare per evidenziare disagi e contraddizioni della rivoluzione. La storia, tutta al femminile, è quella di due giovani donne molto legate che prendono due strade opposte culturalmente.  Aisha indossa il velo per scelta, si è assunta il carico delle sue sorelle dopo la morte del padre ed ama il rivoluzionario fondamentalista Hazma (da poco uscito di prigione). Suo malgrado Aisha deve lavorare per mantenere la famiglia nonostante la disapprovazione del suo compagno e della società tradizionalista. La giovane Aisha deve anche fare i conti con le molestie sessuali del suo datore di lavoro che la vorrebbe togliere dalle cucine della pasticceria per farla servire ai tavoli senza velo e truccata e vestita da occidentale. Zaineb, sorella di Hazma, rifiuta il velo e le regole della religione, cerca di affermarsi come stilista e per vivere serve nella stessa pasticceria di Aisha, truccata e vestita da donna occidentale  subisce le molestie del titolare e combatte con il fidanzato che la vorrebbe sottomessa e con il velo. Entrambe le donne subiranno violenze dirette ed indirette dalla società maschile tunisina e quando non saranno esplicitamente gli uomini a costringerle saranno madri o zie. Un film che non risparmia nessuno, rivoluzionari, fondamentalisti, militari o progressisti, un ritratto lucido ed emotivo sulla società contemporanea tunisina di grande impatto ed importanza storica.

Daniele Clementi

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“La grande bellezza” di Paolo Sorrentino (Cannes 2013)

Sorrentino vola alto come la sua macchina da presa, sorvola Roma, incanta e racconta con spietata lucidità le creature surreali della Roma bene, borghese intellettuale, artista e decadente. Mentre la Roma degli intellettuali di sinistra annoiati ed impigriti si assottiglia e sprofonda nella mondanità, c’è una Roma di faccendieri, imprenditori concussi e politici misteriosi che lavora giorno e notte mentre chi ha la cultura ed i mezzi per vigilare si diverte a fare trenini e cocktail. Sorrentino ritrare con meravigliosa crudeltà l’Italia della decadenza e del vizio, non risparmia nemmeno la chiesa e le sue ipocrisie anche se verso la fine si lascia tentare (male incurabile della sinistra italiana di oggi) dalla spiritualità… o forse no, dalla ineluttabilità della morte che da profondità a qualsiasi cosa, lascio allo spettatore quest’ultima conclusione. Un film importante e lucido che fa di Sorrentino il più grande autore italiano del momento e forse ne conferma l’importanza storica nei giorni che verranno.

Daniele Clementi

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“Closed curtain” di Jafar Panahi (Iran 2012)

Il regista cinematografico iraniano Jafar Panahi è stato condannato a sei anni di prigione e bandito dalla regia e dalla produzione cinematografica per 20 anni a causa dei suoi lungometraggi inequivocabilmente a favore dell’emancipazione della donna in Iran e delle sue idee politiche chiaramente in contrasto con il regime del Presidente Ahmadinejad. Nonostante il divieto di dirigere film il regista iraniano ha deciso di realizzare un nuovo lungometraggio. Panahi, bandito dagli studi cinematografici, ha realizzato così il suo nuovo film fra le mura di casa con attori professionisti ed una troupe ridottissima. Il film è la storia di uno sceneggiatore che si chiude e si isola nella sua villa per finire un film e che si ritrova suo malgrado coinvolto nella fuga di due giovani dalla polizia. L’uomo deve vedersela con questi sconosciuti e con la polizia speciale che si aggira dietro alla porta di casa. Inoltre deve occuparsi del suo cane (attore bravissimo) che deve segregare nella villa perchè una nuova legge religiosa ha dichiarato i cani “esseri impuri” e li ha banditi autorizzando chiunque a seviziare ed uccidere i cani in libertà. Uno strano e coraggioso esperimento in cui il regista convive con i suoi personaggi, fantasmi della sua fantasia e con la condanna del regime in cui è costretto. Il primo film illegale di Panahi è un curioso mosaico di storie, politica e protesta artistica degno di essere conosciuto e discusso e che apre il cuore e dona la speranza di non veder sparire un grande maestro del nostro tempo.

Daniele Clementi

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“Solo Dio perdona – Only God forgives” di Nicholas Winding Refn (Cannes 2013)

Nicholas Winding Refn gioca con il pubblico e dopo la struttura classica di “Drive” decide di disorientare lo spettatore con un film che sembra ma non è quello che lo spettatore desidera. Non ci sono dubbi che Refn abbia avuto un coraggio immenso a proporsi a Cannes con il perfetto “Anti-Drive”, l’autore usa i canoni del cinema di genere americano per nascondere una tragedia psicologica con evidenti echi dalla mitologia greca e dalle storie tradizionali religiose orientali. Non è certamente un caso che Refn citi e renda omaggio proprio a Jodorowsky che ha fatto della burla allo spettatore e della manipolazione dei generi una vera arte negli anni 70′. La storia comincia in una palestra di thai chi tailandese, lo sport nazionale ed anche il principale genere di consumo cinematografico di questo Paese. La palestra è scura, filtra una luce a tratti di un rosso violento, solo il palco è illuminato a giorno e sullo sfondo un dipinto gigante e di rosso rubino descrive il demone Kala Kirtimukha; che secondo la tradizione custodisce le porte di tutti i templi di Shiva. Il luogo dove gli uomini lottano e sanguinano è quindi alle soglie del divino della tradizione orientale. Già solo questo è un chiaro messaggio allo spettatore, l’invito a leggere fra le righe e spostarsi dai canoni del cinema di genere per decodificare il film da un punto di vista diverso. Tutta la storia ruota sul complesso di Edipo, sulla disperata ricerca di un uomo dell’amore di una madre spietata ed assassina, su un’uomo che recide arti e corpi con la sua spada infallibile e che raffigura la castrazione di un padre verso un figlio, il tutto pienamente occultato da un’apparente storia di gangster e vendetta. La chiave di volta della storia è l’immagine lacerante del protagonista che recide il ventre della madre, assassinata poco prima dal suo nemico, per potervi affondare il braccio (quel braccio dei pugni e della disperata violenza che permea la storia) in un macabro tentativo di ritorno al luogo embrionale. Refn gira un film rarefatto, dove ci sono più simboli che parole, dove i canoni vengono stravolti e manipolati per una sorta di sogno ad occhi aperti, e dove alla fine ci si trova davanti a qualcosa di inaspettato e maturo, profondo ma criptico che darà fastidio più che altro a chi si aspettava un rassicurante film di violenza spettacolare.

Daniele Clementi

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“Pussy Riot – A punk prayer” di Maxim Pzdorovkin e Mike Lerner

Le Pussy Riot sono un’anonimo collettivo riot grrrl (sottogenere tematico del punk rock) femminista sovietico. Sono il futuro del femminismo e certamente del comunismo nella vecchia Russia. Nemiche giurate di Putin e della nuova politica  sovietica connivente con mafia e chiesa, le Pussy Riot si esprimono attraverso improvvisi flash mob punk rock o canzoni e video dai contenuti politici molto forti e definiti. Nel marzo del 2012 tre esponeti del gruppo sono state arrestate, imprigionate e processate per un’esibizione pubblica non autorizzata contro Putin nella Cattedrale del Cristo Salvatore. Il documentario racconta l’evento e la sua preparazione, il processo ed indaga sul potere di Putin e le sue connivenze con il crimine e la religione. Fra le scene più inquietanti si annoverano i gruppi estremisti religiosi ortodossi che usano ed intendono la croce come una spada contro i loro nemici e definiscono le Pussy Riot come un cancro da estirpare. Più del documentario è importante la causa delle Pussy Riot e la loro storia come frammento indispensabile di un mondo che cambia. I volti coperti sono parte integrante della loro espressione artistica, i colori delle maschere servono per definire e rassicurare.

Daniele Clementi

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“A touch of sin” di Jia Zhangke (Cannes 2013)

La situazione in Cina deve essere davvero brutta in questo momento se nonostante l’ascesa economica del suo Paese il regista di “Still life” decide di affrontare in questa maniera temi come la disoccupazione, il precariato e lo sfruttamento dell’individuo. Quasi tutti parlano di violenza recensendo questo film ma in realtà la violenza fisica è l’elemento più superficiale della storia, una sorta di specchietto per le allodole rispetto all’inquietante messaggio di fondo. Il film si dirama attraverso diversi personaggi collegati fra loro solo per terze persone coincidenzialmente e superficialmente legate ai vari protagonisti. Il filo conduttore è la loro ricerca di lavoro, denaro o diritti (come lavoratori o persone). La violenza, fisica o psicologica, di una forza maggiore (raffigurata da un capo villaggio, come un’industriale o un datore di lavoro)  scatena una violenza di reazione disperata in questi personaggi, mai gratuita e mai irrazionale. Un minatore rivendica i diritti sindacali suoi e dei suoi colleghi e deve vedersela con l’omertà, la corruzione e le angherie dei più forti. Alla fine il minatore esasperato dalla situazione prenderà un fucile e farà piazza pulita suicidandosi alla fine. Tutte le storie seguono un’epilogo simile: la violenza fisica come risposta esasperata e definitiva ad una sottomissione sociale insostenibile, l’unica variazione è raffigurata dal suicidio di uno dei personaggi, una violenza su se stesso invece che verso gli altri. L’essenza del film sembra risolversi nell’immagine metaforica che compare all’inizio: un vecchio contadino che frusta inutilmente un cavallo sanguinante attaccato ad un carretto che non può trascinare, una fucilata chiuderà il contenzioso lasciando libero il cavallo. Nel film il regista ci ricorda un detto cinese: “Meglio una vita di miseria che una morte felice”, un detto perfetto per produrre lavoratori sottomessi e distrutti che lavorano senza lamentarsi, prostitute della nuova economia, sostituibili e poco costosi. Il film è ricco di riferimenti alla cultura popolare cinese ed i suoi meravigliosi drammi popolari, una pellicola colta e profonda forse molto, troppo illuminante sulla Cina di oggi.

Daniele Clementi

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Hansel & Gretel e la strega della foresta nera (Hansel & Gretel & the 4:20 witch aka Hansel & Gretel get baked) di Duane Journey

Questo piccolo horror americano fa pensare ai vecchi B-Movie di Peter Jackson, dove l’ironia e l’effettaccio splatter andavano allegramente a braccietto. Ogni tanto il trash può far bene allo spirito e così succede anche in questo caso. Hansel e Gretel diventano adolescenti americani e la foresta nera un nuovo tipo irresistibile di marijuana spacciato dalla strega cattiva che, per ritrovare vigore, cannibalizza i ragazzi asuefatti alla droga. Non c’è molto altro da aggiungere perchè un pò tutto è in superfice e si legge senza fatica, ma ciò nonostante il film si rivela godibile dalla prima all’ultima scena mantenendo una sua dignità. Indimenticabile la strega che nasconde in un modellino di casetta di pan di zenzero le carte di identità delle sue vittime (come un vero serial killer moderno) e Gretel che per non perdersi nel labirinto di piante di cannabis usa le “smarties” come briciole per ritrovare la strada.

Daniele Clementi

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Gallowwalkers di Andrew Goth

Dio benedica il B-Movie! A volte solo una follia trash priva di tante pretese può alzare il morale dello spettatore. Andrew Goth ci propone uno spaghetti western horror nato senza dubbio sul filo di “Django unchained” di Quentin Tarantino con Wesley Snipes per protagonista e di contorno le particine cameo di Patrick Bergin e della promettente (come ScreamQueen) Tanit Phoenix. Il film non ha pretese intellettuali ma ne ha anche troppe sul piano della trama. In un west che somiglia per scene e musica a quello di Sergio Leone si muove un cowboy di colore che vendica lo stupro e l’uccisione della sorellastra e amante. Il giustiziere non prevede però che ci si metta di mezzo un Dio pagano a cui si è dedicata sua madre abbandonandolo da piccolo e che non solo fa ritornare in vita il nostro eroe, ucciso in modo discutibile alla fine della carneficina, ma pure tutta la brigata di stupratori che aveva faticosamente ucciso… Eh allora che si fa? Si ricomincia a cacciare ed ammazzare gli stessi stupratori che ora sono pure zombie e anche un tantino cenobiti (quelli di Clive Barker) perchè amano gironzolare senza pelle ed indossare quella degli altri. Wesley Snipes che se ne va in giro a staccare la testa dei cowboy sgusciandole dai corpi con la spina dorsale attaccata è inferiore per comicità grottesca solo alle scene in cui testa e spina dorsale buttate per terra si agitano come pesci fuor d’acqua. Un film trash folle e divertente se lo si sa prendere per il verso giusto (per i fondelli ma con affetto) in cui il regista e sceneggiatore Andrew Goth sembra perfino volersi ispirare al fumetto di “Bluebarry” di Moebius ed il cult “El topo” di Jodorowsky non necessariamente riuscendoci. Dopo “Django” di Tarantino e l’antesignano “Posse” di Mario Van Peebles questo può essere l’inizio di un sottogenere american-afro-spaghetti western su cui magari fra vent’anni qulcuno vorrà fare le retrospettive ai festival. Non lo vedremo in prima serata sulla tv generalista e nemmeno al Cinema ma in dvd con gli amici ed altri trash a supporto si può sempre proporre.

Daniele Clementi

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