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Il Thriller secondo Sidney Pollack

 Il Thriller secondo Sidney Pollack

“ The Yakuza “di Sidney Pollack (1975)
“Three days of the Condor” di Sidney Pollack (1976)

Recensione di Daniele Clementi

(c) Dino De Laurentis

In un buon thriller c’è sempre un alibi che va confutato, di soliti si tratta del perfetto alibi di un pericoloso assassino e si limita ad informazioni esterne come luoghi, tempi e nomi di persone. Ma nel cinema di Pollack l’alibi più pericoloso sembra essere decisamente di più quello che un uomo si costruisce per giustificare un atto immorale e contrario all’etica comune. Insomma gli alibi nei thriller di Pollack sono sempre cause di forza maggiore che consentono con facilità di commettere omicidi a sangue freddo o veri e propri massacri. I membri della yakuza giapponese usano da sempre come alibi dei loro crimini il codice d’onore ed antichissime regole di guerra. Allo stesso modo la Cia (così come la racconta Pollack) giustifica le proprie azioni in nome della sicurezza di un singolo paese e della sua stabilità economica imputando ai cittadini americani una sorta di omertà convenuta e quasi istintiva. Se " The Yakuza " porta lo spettatore occidentale a considerare il codice d’onore giapponese come il retaggio di una cultura rituale profonda e solo parzialmente comprensibile (lo stesso vale per i nativi americani di "Jeremiah Jhonson"), i principi e la natura stessa dello spionaggio americano sono mostrati con un giudizio univoco e severo, in buona sostanza si sente in modo chiaro e marcato che Pollack sceglie in prevalenza di testimoniare o al massimo di difendere gli alibi di culture diverse dalla sua mostrandosi invece cosciente, critico e persino sarcastico su quei retaggi del potere occidentale che Pollack riconosce come propri della sua cultura e quindi liberi di subire un giudizio severo. Il protagonista di " The Yakuza " si rivela una sorta di naturale evoluzione del personaggio di Jeremiah Jhonson (anche se le differenza estetiche fra Robert Mitchum e Robert Redford sono consistenti), un uomo che pur vivendo immerso in una cultura diversa dalla sua sembra in fondo quasi impermeabile fino al momento in cui si vedrà costretto a confrontarsi con la più dura delle perdite (i suoi più cari e profondi affetti). Contrariamente a questo profilo il protagonista di "Three days of the Condor" diventa una vittima inconsapevole ed un testimone involontario delle più profonde aberrazioni della sua stessa cultura, questo personaggio non ha il tempo ne lo spazio per potersi permettere il distacco che preserva emotivamente i suoi predecessori nella prima parte dei loro rispettivi film. Non possono essere ignorati i dettagli che accomunano entrambi i film ed in fondo lo stesso "Jeremiah Jhonson" ovvero la necessità di incontrare figure che svolgano il ruolo si a di mentori del nostro eroe (dinamici e giovanili Virgilio negli inferi di culture o logiche aliene) che la funzione di preziose spalle ed alleati del protagonista (moderni Lancillotto che affiancano il nostro Artù nella scoperta di un sacro Graal raffigurato da una pura giustizia e verità difficile da raggiungere). Mirabile la figura di Takakura Ken nel film " The Yakuza", direttamente ispirata dai classici "Yakuza papers", film di genere gangster che dominarono il mercato orientale negli anni 70’ e di cui lo stesso Takakura fu star incontrastata. Un personaggio puro come gli ideali di onore a cui è destinato, nobile e suggestivo come i migliori indiani del cinema classico americano e contemporaneamente letale e spietato, non è un paragone casuale quello del samurai contemporaneo con l’indiano ideale perché in fondo Pollack non sembra avere chiara la distinzione culturale fra elò due figure, probabilmente le percepisce entrambe come indigene o addirittura aliene alla sua cultura, pur volendole rispettare ed idealizzare per merito della sua formazione democratico socialista. Allo stesso livello di qualità possiamo porre la figura di Max von Sydow nel film "Three days of the Condor" (personaggio assente nel romanzo " i 6 giorni del condor" e creato per il film su commissione del regista), un freelance dello spionaggio che uccide senza se e senza ma e che si limita solo a quantificare il valore commerciale dei suoi delitti in funzione della fatica e non certo del valore morale dell’individuo che deve eliminare. Anche lui ha il compito di portare il protagonista alla scoperta del torbido mondo della Cia e di una Cia interna alla Cia che programma l’invasione americana del medio oriente per potersi impossessare delle risorse energetiche dei paesi arabi e garantire il mantenimento del tenore economico americano (era il 1976 e Pollack ci raccontava già tutto), la cosa più agghiacciante del film è che l’organizzazione che tenta di costruire le motivazioni per giustificare l’invasione bellica americana in medio oriente si trova proprio nelle Twin Towers (che compaiono più volte nel film gelando il sangue degli spettatori in sala), nasce quasi spontaneo domandarsi le cause di questa inquietante coincidenza.

(c) Warner Brothers

Il western secondo Sidney Pollack

Il western secondo Sidney Pollack

 

“ The scalphunters “  di Sydney Pollack (1967)

“ Jeremiah Johnson “ di Sydney Pollack (1972)

 

Recensione di Daniele Clementi

(c) United Artists

Sidney Pollack ha esplorato il genere western solo due volte nel corso della sua carriera, la prima nel 1967 con un film a metà fra la commedia ed il classico western movie, la seconda volta in modo decisamente più impegnato nel 1972. Il primo western di Pollack era una tipica avventura fracassona destinata all’intrattenimento per famiglie con qualche spunto interessante nel contesto soci-politico.

Joe Bass (Burt Lancaster) è un cacciatore di pelli, giunta la primavera lascia le sue montagne ed attraversa i territori indiani per vendere in città il frutto del suo lavoro invernale. Durante il suo viaggio è bloccato da una tribù indiana che lo costringe a barattare le sue pelli in cambio di uno schiavo in fuga adottato da una tribù apache massacrata durante una faida interna. Joe Bass si ritrova pertanto costretto a rinunciare al suo lavoro per uno schiavo che non vuole e con cui non vuole avere nulla a che fare. Determinato a riprendersi le sue pelli Joe Bass insegue gli indiani a distanza in attesa che si ubriachino con il barile di rhum nascosto fra le pellicce. Costringe lo schiavo a seguirlo con le intenzioni di poter vendere tutta la “merce” (sia quella morta che quella viva) appena giunto in città. Purtroppo il nostro eroe non ha fatto i conti con la banda di gringos che ispira il titolo del film. I cacciatori di scalpi (il cui capo non a caso è il mitico e pelatissimo Telly Savalas) aggrediscono ed uccidono gli indiani prima che Joe possa fare qualcosa e si portano via sia gli scalpi dei pellerossa che le preziose pelli che il cacciatore stava inseguendo. Il film prosegue raccontando l’odissea di Joe Bass e del suo schiavo all’inseguimento delle pelli in viaggio verso il Messico. La storia, già piuttosto avvincente è perfezionata da alcuni dettagli tanto brillanti quanto divertenti. Lo schiavo, infatti, è molto più colto del suo padrone, sa leggere, scrivere, conosce la storia ed è capace di sostenere trattative politiche ed economiche, anche gli indiani di questo film sono molto bravi in quanto a capacità di baratto ed ironica arguzia e l’etnia più avida, incolta ed animalesca si rivela proprio la razza bianca che domina la frontiera americana con tanto piombo e poco cervello.

Resta indimenticabile la sequenza in cui lo schiavo spiega a Joe Bass che a causa delle sue origini inglesi è anche lui ,di fatto, figlio di schiavi poiché un certo italiano di nome Giulio Cesare obbligò i suoi antenati in schiavitù alcuni secoli prima. Un film western molto equilibrato con tante trovate intelligenti e persino qualche momento di raffinata costruzione filmica, merita una breve citazione finale la presenza divertentissima di Shelley Winters.

Da questo western possiamo leggere i primi frutti della rivoluzione culturale americana che nel 67’ combatteva culturalmente la paura dell’integrazione razziale e la rivalutazione dei nativi americani.

Un film apparentemente semplice sul piano linguistico ma molto ricco e complesso sul piano della stratificazione dei contenuti, un film molto politico e come tale molto western dove la vecchia regola di John Ford di nascondere i contenuti in una robusta imbracatura da film di genere si dimostra elaborata e persino perfezionata.

 

(c) Warner Brothers

 

Purtroppo questo tipo di tecnica di cinema a molteplici livelli non era troppo compreso in Europa (capita a tutti di sbagliare !) e negli anni 60’ ed all’inizio degli anni 70’ questi film non erano presi in considerazione dai festival del cinema perché considerati inadeguati alla natura di una manifestazione del genere. Nel 1972 fu proprio il secondo film western di Sidney Pollack a segnare la morte di questa politica culturale e ad aprire le porte dei festival europei al cinema di genere.

Il secondo western di Pollack sembrava destinato all’oblio, infatti, quando i dirigenti della Warner Brothers videro il girato di “Jeremiah Jhonson” pensarono di abbandonare l’impresa e lasciare il film addirittura senza montaggio. Il problema consisteva nella diversità di un film che negava i vecchi canoni del cinema western per esaltare principi narrativi e sociali che fino a quel momento non erano così scontati dentro ad un film western. Fu così che si tentò di salvare il progetto cercando di ottenere l’uscita del film al Festival di Cannes, aprendo così le porte ad un target più capace di comprendere il progetto. Fu solo dopo un enorme lavoro che i selezionatori del festival riuscirono a vedere questo film ed inserendolo in concorso cambiarono il modo di vedere e considerare il cinema di genere. Un traguardo importante e ormai dimenticato.

Il film “Jeremiah Johnson” è purtroppo noto in Italia come “Corvo rosso non avrai il mio scalpo”, scrivo “purtroppo” perché il titolo seppure molto affascinante non rispetta né i contenuti né i personaggi del film. Il personaggio di corvo rosso nel film originale non esiste, il nome può evocare a fatica il primo indiano incontrato da Jeremiah (Robert Redford) ma nella versione originale questo personaggio è chiamato in lingua indiana "Paints His Shirt Red", inoltre questo personaggio (unico papabile corvo rosso) è uno dei pochi indiani di tutto il film a non mostrarsi ostile verso il protagonista, ben lungi pertanto dal desiderare lo scalpo di Jeremiah.

Rispetto al suo primo western Pollack mostra una sorta di regressione sul modo di raccontare gli indiani, o forse possiamo parlare di una presa di coscienza che rende lo sguardo del regista più disilluso. Gli indiani non sono più totalmente buoni o cattivi, si rivelano invece molto simili ai coloni, nella loro barbarie e nella loro incapacità di superare le convenzioni del loro costume per poter capire la diversità del loro prossimo come se l’intolleranza e la violenza che nasconde l’incomunicabilità culturale e spirituale fosse una prerogativa innata dell’uomo, latente nella sua natura a prescindere dalla propria infrastruttura sociale. Gli indiani di questo film possono essere colti o ignoranti, stupidi o profondi, cattivi e buoni allo stesso tempo e forse per la prima volta un regista cerca di mostrare le loro ragioni anche di fronte ad azioni eticamente ingiustificabili mostrando quanto può essere diverso il concetto di giusto o sbagliato fra diverse culture distanti ed opposte. Quello che incuriosisce in ultima analisi nei due film è che in entrambi i casi i protagonisti sono cacciatori di pelli, entrambi vivono nelle montagne americane ed entrambi hanno un rapporto con la natura più profondo e definito di quello che hanno con le società degli uomini, entrambi sono piegati ad una legge diversa da quella dell’uomo bianco o del pellerossa, l’unica legge che Joe Bass e Jeremiah Johnson conoscono e si sentono tenuti a rispettare è quella della montagna, una legge ancestrale ed impietosa casuale ma irreversibilmente efficace nella sua mortale perfezione.