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“Green inferno” di Eli Roth (Roma 2013)

Dopo anni di assenza dalla regia cinematografica Eli Roth, seguendo la strada tracciata da Quentin Tarantino, ritorna al cinema horror ispirandosi ai vecchi film di cannibali italiani, inevitabilmente primo fra tutti quello di Ruggero Deodato “Cannibal Holocaust” a cui è dedicato il film. Ma Eli Roth non è Quentin tarantino e questo tipo di operazione la fa in modo nettamente diverso e meno giocoso, ne emerge un film che copia all’esasperazione i contenuti dei classici italiani senza però ripeterne l’ingenuità e la genuinità originale.
Roth dimostra di aver studiato attentamente questo sottogenere, offre allo spettatore colto una ricca filmografia di opere nei titoli di coda e quando compare la dedica a Deodato non manca di farci sentire in inglese la banda sonora del film cult del regista italiano, nello specifico la scena di sevizie al maialino praticate (per davvero) da un giovanissimo Luca Barbareschi. La cosa però che lascia più perplessi è la scelta di inserire una strana sottotrama politica, perfino ideologica in un film che poteva serenamente rimanere in superfice senza cercare ambiziose provocazioni. La storia è quella di una studentessa universitaria ancora vergine e davvero molto ingenua che viene coinvolta da un gruppo di attivisti politici (simili ai ragazzi di “Anonymus” oppure “Occupy Wall Street”) a lasciare gli USA per la volta del Perù con la missione di ostacolare il disboscamento praticato da una potente multinazionale. Con grande sorpresa della protagonista gli attivisti, stupidi e cattivi, si riveleranno lo strumento consapevole di una multinazionale concorrente e lei scoprirà di essere semplicemente un’esca per i media essendo nipote di un diplomatico dell’ONU. Gli indigeni cannibali in compenso sono stupidi, brutti e spietati e si divertono a fare cose atroci senza uno specifico significato logico. Roth si diverte a giocare con temi diffusi dai democratici americani trasformandoli e ridicolizzandoli, portandoli a strumento di compiaciuto sadomasochismo come la strana scena del tentativo di infibulazione girata fra l’erotico, il comico ed il raccapricciante. Un film che lascia perplessi. In merito alla violenza sugli animali (famoso oggetto di discussioni più che lecite ai tempi degli originali italiani) Roth mostra con una certa ostentazione animali tranquilli e ben pasciuti che riposano placidi nel villaggio dei cannibali, la sola violenza, portata all’estremo, la riserva agli esseri umani preferibilmente di sinistra.

Daniele Clementi

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HOSTEL ovvero l’appropriazione delle vite altrui e la reificazione dell’essere umano: Abu Grahib, Guantanamo… e molto altro da buttare via per l’ultimo dell’anno

A cura di Cult Movies

E’ dura parlare di “Hostel” (Eli Roth, Stati Uniti, 2005), sarebbe forse stato meglio esordire su questo blog con un articolo più consolatorio, con migliori auspici per “l’anno che verrà”, ma è sufficiente guardarsi, laicamente, intorno per accorgersi che tra un anno e l’altro c’è in mezzo solo la solita nottata, che non cambierà assolutamente nulla rispetto al giorno prima. Ed è bene quindi, come tradizione vuole, provare a gettare catarticamente dalla finestra la robaccia vecchia e ripugnante che vorremmo non ci appartenesse più. Esordire su un blog, su un nuovo spazio, l’ultimo giorno di un anno, come tanti altri prima e come tanti altri dopo, zoomando, semplicemente, su una enorme tragedia che non riusciamo, spesso, neanche più a vedere, schiacciata dall’appiattimento dell’immagine televisiva, dal disinteresse per l’altro, ove non dal fastidio, potrà essere per qualcuno, fors’anche solo per chi scrive, liberatorio, catartico appunto.

Film indigesto, scomodo e doloroso quant’altri mai, colto e citazionista per il cinefilo, tragicamente realista e profondamente disturbante se lo si colloca, come peraltro nelle intenzioni del regista stesso, nell’ottica di ciò che gli Stati Uniti e la perversa prospettiva di una millantata supremazia occidentale (“God’s on our side”) hanno provocato, ed in parte legittimato, una volta “scoperti”, a Guantanamo e ad Abu Grahib, Irak. Terre di nessuno, appunto, come lo sconosciuto paese della Slovacchia in cui vengono letteralmente attirati, dai richiami di “sesso facile” di un falso amico conosciuto in viaggio, i nostri due giovani turisti americani in viaggio per l’Europa. Paxton e Josh non sono più nulla in quella specie di non luogo dell’Europa dell’Est, non sono più esseri umani con dignità e diritti, sono solo carne da macello nelle mani di ricchi pervertiti che soddisfano, a pagamento, il proprio delirio di onnipotenza attraverso l’agghiacciante manipolazione, tortura, distruzione del corpo e consequenzialmente della vita altrui…

Molti hanno disprezzato questo film, definendolo solo un’operazione di “bassa macelleria”, gusto per l’eccesso e per l’effettaccio truculento, addirittura “tarantiniana” commercializzazione della violenza e della brutalità (Tarantino ne è uno dei produttori esecutivi ed ha messo mano al montaggio di alcune sequenze)… Ma questi sprezzanti giudizi nascondono, probabilmente, da una parte il rifiuto di accettare il freddo, sporco e ripugnante realismo di fondo di questa opera e dall’altra la superficialità, cui sopra si accennava, l’appiattimento, la presa di distanza, a cui i media e il nostro stesso inconscio ci hanno condotto. Roth, pur avendo come mentore Quentin Tarantino, non “gioca” affatto con la violenza, non si (e ci) estrania da essa nel momento stesso in cui ce la “sbatte in faccia”, non ci tira addosso “schizzi di sangue” riuscendo persino a farci ridere. No. Eli Roth fa sul serio. Ci racconta la verità, l’agghiacciante verità della tortura, quella che nella storia del cinema horror passa per la svolta rivoluzionaria del Tobe Hooper di Non aprite quella porta (The Texas Chainsow Massacre, Usa, 1974), per l’estrema visione pornografico-cinefila della morte messa in scena, pochi anni più tardi, parimenti eversiva e rivoluzionaria, del Cronenberg di Videodrome (Canada, 1983), ma anche per il teorema cinematografico-filosofico-politico, già messo in scena nel 1929 da Luis Buñuel e Salvador Dalì, in Un chien andalou, una delle massime espressioni, a tutt’oggi, del surrealismo al cinema. La sequenza dell’occhio tagliato da una lama di rasoio viene esplicitamente resa, in Hostel, parte integrante del percorso nella follia umana, purtroppo umana, che il regista ci sta raccontando. L’organo della visione, l’occhio, di una donna, viene tagliato di netto da uno dei “torturatori per diletto”. E’ pregno di senso, quel taglio. Ma quale torturatore, in definitiva, non lo è “per diletto”? Nessun essere umano è in grado, per dovere, per imposizione dall’alto, di realizzare delle efferatezze su di un altro se non ha già in sé la perversione disumana eppure umana dell’abuso di potere sull’altro, della violenza sul corpo altrui.

Ma torniamo ad Hooper e a Non aprite quella porta. Perché è rivoluzionario questo film? Perché mette in gioco uno degli assiomi teorici portanti del cinema fantastico-horror, ovvero “l’infamiliarizzazione del familiare”, l’incursione del fantastico nel reale, nel quotidiano, nell’ordinario. Il vampiro, il morto vivente, la mummia, la “bestia”, il “mostro”, sono tutte creazioni fantastiche, non reali, né realistiche, né verosimili che irrompono nel quotidiano scorrere degli eventi. Ciò che Hooper mette per la prima volta in scena, invece, nel 1974, è la mostruosità dell’essere umano, di alcuni esseri umani, senza alcun bisogno di ricorrere al fantastico. Leather Face è un pazzo, non un mostro a tre teste, non un “non morto”, un fantasma et similia. Leather Face è solo un feroce essere umano completamente pazzo, un assassino, un torturatore, appunto, la maschera di cuoio che gli copre il volto di essere umano a tutti gli effetti nasconde solo un’umanità efferata e degradata, un’umanità che si arroga il diritto di schiacciare, torturare e sopprimerne un’altra. Molti torturatori, storica verità fattuale dall’oscurantismo religioso del Medio Evo, alla controriforma, su su sino ad oggi, si nascondevano il volto dietro a maschere, come se ciò potesse occultare l’umanità, perversa e malata, sino al delirio di onnipotenza, del loro essere. Nel film di Hooper, per la prima volta nella storia del cinema, è lo stesso reale ad essere svelato come mostruoso, come anche in Hostel, giustappunto. Ciò che è accaduto, e forse ancora accade a Guantanamo su persone rese, abusivamente, in nome di millantati ideali, senza diritti, non è fantastico, è reale, compiuto da esseri umani su altri esseri umani. Ma anche ciò che sta accadendo ed è già accaduto, qui, in Italia, a Lampedusa ed in ogni luogo in cui ci siano dei CPT, che più che Centri di Permanenza Temporanea potrebbero essere decodificati come Centri Permanenti di Tortura, come ci raccontò, ormai tre anni fa sull’Espresso il giornalista Fabrizio Gatti (e non crediate che le cose siano cambiate, anzi). O quello che è successo alla Diaz, a Genova, nel 2001, o a Bolzaneto. Anche a Genova le facce dei torturatori erano coperte, anche lì tanti Leather Face si nascondevano dietro a dei caschi integrali per dare sfogo alla parte peggiore di se stessi. Anche nelle mete del cosiddetto “turismo sessuale” accade ciò che Hostel ci racconta, e tutta la storia di noi esseri umani è di fatto costellata da efferate manifestazioni di potere assoluto di alcuni su altri, lo è stata e lo è ancora.

Il fatto, inoltre, che Eli Roth scelga a protagonisti di questa storia efferata due giovani americani è significativo, quasi una scelta doverosa per far sì che lo spettatore occidentale si identifichi, perché viva tutto l’iter nella spersonalizzazione, da essere umano a “cosa”, come se fosse lui il protagonista, senza potersi raccontare la balla consolatoria che “a me non può accadere”. No. Di buona famiglia, studenti, occidentali e con i soldi in tasca, non il povero, raccontato ad esempio da Winterbottom in Cose di questo mondo (In This World, Gran Bretagna, 2002), il migrante, alieno dalle nostre vite di occidentali e con il quale l’immedesimazione è assai difficile, lontana. Paxton e Josh sono “proprio come noi” e quando Josh viene ammazzato sotto i nostri occhi, ed il suo corpo in seguito “smaltito” come un qualsiasi rifiuto organico insieme ad altri pezzi di esseri umani non identificati, noi, lo spettatore, a meno che non siamo superficiali o irrimediabilmente cinici, stiamo male. Molto, molto male. E l’obiettivo di Roth è raggiunto pienamente.

Un’altra notazione importante è quella sulla “figura paterna”, raffigurata da un mostruoso eppur credibile Jan Vlasák, uomo d’affari tedesco che esplicita, nell’incontro in treno con Josh e Paxton che precede la caduta agli inferi, la sua figura di padre. E che padre! Sarà proprio lui ad uccidere Josh, a torturarlo, a fargli credere che sarà libero e se ne potrà andare quando in realtà gli ha tagliato di netto i tendini delle caviglie in una delle sequenze più raccapriccianti del film rendendogli materialmente impossibile la fuga. Un padre che si dichiara mellifluamente disponibile e che invece ammazza i suoi “figli”, un padre che simbolicamente rappresenta e ricorda proprio il tipico “paternalismo” del capitalismo occidentale americano, lo stesso che dichiarava ufficialmente di “portare la democrazia in Irak” mentre stava portando morte e distruzione.

Ho parlato di un finale “posticcio” e lo racconto, perché immagino che pochi vedranno questo film (a meno che non lo abbiano già visto), personalmente non lo auguro a nessuno, pur continuando a sostenere, convinta, che sia, quasi, un capolavoro, comunque un pezzo importante della storia del cinema sotto molti aspetti. Vorrei non averlo mai visto eppure sono in qualche modo orgogliosa di averlo fatto. Ecco l’incongruo che riesce a generare un film come questo.

Paxton si salva, rocambolescamente e, data la situazione, con una discreta “sospensione del verosimile” rispetto al contesto, ma si salva. E non solo. Uccide catarticamente il “paternalismo bugiardo ed assassino” raffigurato da Jan Vlasák, ma in definitiva a poco serve. Non riesce ad essere catartico, non riesce a ricucire “il taglio di netto dell’occhio” visto in precedenza. Verrebbe da dire che “nulla sarà più come prima”, ora che sappiamo. Magari fosse vero.

Ecco cosa c’è da buttare, finalmente e definitivamente, dalla finestra, in questo ultimo dell’anno 2008, non certo il film che lo denuncia chiaramente, ma la prevaricazione e l’appropriazione delle vite, dei corpi, delle menti da parte di alcuni esseri umani su altri esseri umani. Scusate se è poco…

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