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“MAD MAX FURY ROAD” di George Miller, Australia 2014 (Cannes 2015)

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Nel 1979 George Miller fece scoprire al mercato mondiale l’incredibile potenziale dell’industria cinematografica australiana. La sua opera prima “Mad Max” (In Italia “Interceptor”) ebbe uno straordinario impatto tanto ai botteghini quanto sul pubblico. La carica di violenza, le trasgressioni visive, la forza disturbante ed attraente al tempo stesso della messa in scena del film scatenarono polemiche, censure e accuse ambigue di fascismo. Quel piccolo film lanciò il giovane Mel Gibson e scatenò un vero esercito di epigoni costituendo un sottogenere cinematografico coltivato negli anni da giovani registi americani in cerca di successo e tanti artigiani italiani che trovarono in questa mistura di west futuristico e medioevo prossimo venturo una vena d’oro per le loro produzioni. Poco dopo il fenomeno di Miller sarebbero nati altri progetti che, seppure perfettamente autonomi, devono al film australiano il merito di averli ispirati o quantomeno spianato loro la strada, film del calibro di “Escape from New York” (“1997 fuga da New York”) di John Carpenter e “Terminator” di James Cameron.

Nel 1981 il secondo film della serie completò il processo di creazione di un nuovo sottogenere con soluzioni visive uniche che furono per decenni i punti fermi del cinema post apocalitico. Le avanguardie del fumetto e perfino il videoclip attinsero dalle soluzioni di Miller. Nel 1985 Miller chiuse il percorso con il film “Mad Max beyond the thunderdome”, ormai perfettamente integrato nel sistema di Hollywood, il robustissimo merchandising vide alla vetta dei suoi risultati il rilancio mondiale della cantante Tina Turner. Miller scomparve poi nell’oblio delle produzioni americane finendo nei film per famiglie ed abbandonando definitivamente il genere che in sostanza aveva creato. Negli anni ’90 Kevin Costner, all’apice della sua popolarità, avrebbe cercato di riportare in serie A questo genere realizzando con il regista Kevin Reynolds l’imponente ma fallimentare “Waterworld” che proponeva la ricetta “Mad Max” in una terra sommersa da oceani di acqua marina prodotti dallo scioglimento dei ghiacci. Il più famoso e costoso tentativo di imitazione dell’ultimo decennio è stato la rielaborazione a sfondo religioso del genere girata dai fratelli Hughes nel 2010 intitolata “The book of Eli” (in Italia “Codice Genesi”) con Denzel Washington per protagonista.

Dopo trenta lunghi anni di attesa Gerge Miller riporta sullo schermo il personaggio per cui sarà ricordato nella storia del cinema, lo fa in Australia con il massimo dei mezzi possibili, con l’esperienza maturata nella major americane e con la sapienza di chi si è concesso anni ed anni per pensare a come riportare in gioco il personaggio. La struttura non cambia di una virgola, l’ambiente non muta e le regole narrative e visive sono totalmente confermate, l’unica differenza sono i mezzi a disposizione: i più alti di tutta la serie. Dopo una grande crisi economica ed una terza guerra mondiale, in una terra desolata e ostile dove l’energia fossile e l’acqua sono ormai più preziosi dell’oro e della vita umana, un dittatore deforme domina su tutti gli altri uomini controllando le ultime risorse rimaste. Le donne più sane sono costrette a produrre latte come bovini e le più belle destinate al personale harem del dittatore. Solo una donna senza un braccio, un ragazzo buono di cuore (seppure educato dal dittatore come un kamicazen dell’Isis) ed il nostro Mad Max troveranno il coraggio di salvare le proverbiali vergini dal sacrificio e di organizzare la conquista della cittadella e delle ultime risorse per il popolo ridotto in schiavitù. I film di Mad Max non hanno mai brillato per la complessità della trama, il punto di forza dei film di Miller è sempre stato nelle soluzioni visive, in questo caso al vertice della loro spettacolarità. Il film è come un grandissimo musical postmoderno una sorta di Cirque du soleil post nucleare che non può che essere una straordinaria gioia per gli occhi con una colonna sonora modernissima e giovanissima firmata da Junkie XL. Alla fine di questo “Ombre rosse” metallico e sanguinolento ad avere la meglio saranno le donne. Al genere femminile spetterà il compito di governare la cittadella dopo la caduta del dittatore e ridare l’acqua e la libertà al popolo mentre il nostro Mad Max, come in tutti i finali dei film precedenti, riprenderà il cammino verso il suo ineluttabile e sconosciuto destino. Non si può dire che ci sia qualcosa di veramente nuovo in questo film ma non può non essere riconosciuta la qualità della coerenza e la conferma di un regista ancora capace e pulsante. I messaggi politici ci sono fra le righe del racconto come ci sono sempre stati e sono riservati a chi vuole andare oltre lo spettacolo visivo. Il film in fondo è anche la celebrazione di un personaggio che esattamente come Indiana Jones o Harry Callaghan ha rappresentato e rappresenta un punto fermo nella storia del cinema di genere.

Daniele Clementi

 

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