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"The hurt locker" di Kathryn Bigelow (2008)

Come promesso ecco un gustoso approfondimento sul film di Kathryn Bigelow, vincitore di 5 statuette. Queste recensioni sono state realizzate in occasione dell'uscita del film alla Mostra del Cinema di Venezia 2008, da Antonlla Mancini, Paolo Strigini e dal sottoscritto. Per me, è motivo di particolare orgoglio pubblicare la recensione di Antonella e Paolo, perchè si tratta anche di un piccolo omaggio a Paolo Strigini, che ci ha lasciato proprio poco dopo la fine della Mostra del Cinema. Paolo aveva una visione lucida e brillante degli Stati Uniti, avendoci vissuto e lavorato per anni, una risorsa preziosa, se si considera inoltre che tutti gli eventi degli anni '60 che hanno dato il via alla nuova America (madre anche del cinema della Bigelow) erano stati vissuti da Paolo in prima persona.

Recensione di Paolo Strigini e Antonella Mancini

Iraq 2008. Un film sulla guerra, non un film di guerra né contro la guerra. Ritmo, suspence, due ore abbondanti che volano per mostrarci la guerra attraverso un unico aspetto: il lavoro dell’artificiere sul campo di battaglia. Questa scelta consente di mozzare il fiato quasi ininterrottamente, con un ritmo frenetico: ce la farà Jeremy a rintracciare e tagliare il filo giusto, a riuscirci prima che un timer nascosto o un cecchino in agguato faccia saltare tutti in aria, a cominciare da lui? E’ sempre il sergente Jeremy a rischiare la pelle più di tutti, invano gli altri – specialmente il nero – cercano di trattenerlo, accusandolo di rischiare la pelle di tutta la squadra per soddisfare la sua adrenalina. Ma, come ci viene spiegato nei titoli di testa, “la guerra è una droga”, e quindi solo il rischio estremo può soddisfare i drogati. Si insultano fra loro, questi soldati e arrivano anche a picchiarsi, ma in fondo ci vengono presentati tutti come bravi ragazzi; forse sembrano anche un po’ troppo gentili con gli Irakeni (un colonnello medico, bravo a trattare l’isterismo e l’angoscia dei soldati, salterà in aria proprio per un eccesso ridicolo di cortesia imparata a Yale). Viene da pensare che la regista sia, se non “embedded” come gli unici giornalisti ammessi a raccontare la guerra guerreggiata degli USA, certo – e comprensibilmente – vicina col cuore a questi ragazzi che aspettano la fine della ferma di un anno nell’inferno. Non si direbbe, ma in fondo la regista è una donna, ed è un’americana democratica. E’ vero che in Redacted (mostrato a Venezia l’anno scorso e circolato poco o nulla nelle sale) Brian de Palma non soffriva di questi ritegni. Ma lui ricostruiva una specie di documentario-intervista su un crimine di guerra, come quest’anno l’israeliano Z32. Forse per fare un film contro la guerra e perché la gente lo veda oggi occorre scegliere un episodio che sia esplicitamente criminale?

Recensione di Daniele Clementi

Il nuovo film di  Kathryn Bigelow  parla di dipendenza, dipendenza dalla guerra, dalla scarica di adrenalina che produce il corpo quando è a rischio della vita. Totalmente ambientato in Iraq, tranne pochi secondi negli Usa, il film racconta il conto alla rovescia per la fine dell'incarico di tre uomini assegnati alla forza artificieri, due soldati marines (uno specialista ed un sergente) e l'artificiere, che hanno il compito di proteggere, durante le operazioni di individuazione ed eventuale disinnesco delle bombe terroriste.

La storia comincia introducendoci un magnifico artificere, sicuro di sè e risoluto nell'azione, interpretato da un convincente Guy Pearce, che però muore pochi minuti dopo l'inizio del film, dimostrando che non è solo questione di talento e professionalità, e che in Iraq ogni certezza è appesa al filo della sorte. Seguiamo quindi lo sconosciuto Jeremy Renner che prende il posto del personaggio di  Pearce e si rivela ben presto malato di dipendenza alla guerra. La patologia del protagonista è però descritta con raffinata e voluta ambiguità, per tutto il film è posta in secondo piano, si vede e non si vede, rendendo il soggetto un protagonista ambiguo e suggestivo. Al suo fianco il ritratto di due soldati "sani e normali", che talvolta rischiano proprio per la loro lucidità di essere scambiati per codardi o burocrati. Indimenticabile la partecipazione di Ralph Fiennes nel ruolo del contractor, che arresta due terroristi segnalati nelle famose carte da gioco dell'Iraq e li vede svanire poco dopo perdendo la sua stessa vita e riconfermando il precetto che in guerra nessuno è predestinato all'eroismo o garantito dal suo status quo.

Un film di guerra dunque, che nella resa magistrale dell'azione e delle battaglie, rivela una visione oggettiva ed obiettivamente negativa del conflitto che descrive. Indimenticabile il disinnesco di un'autobomba, o la lunga scena dell'agguato nel deserto, che evoca senza mai copiare il cinema western degli anni '50.

Bigelow ci mostra un Iraq ostile, o nel migliore dei casi indifferente alla guerra degli americani. Sono emblematiche le sequenze in cui gli iracheni osservano gli americani disinnescare le bombe come se fosse uno spettacolo, e con un sottile sguardo di sfida, come se tutto questo non riguardasse loro ma solo i marines ed i loro nemici fondamentalisti.

L'autrice, pur ispirandosi ad un libro e basando tutta la struttura del racconto sugli appunti del giornalista embedded Mark Boal (già ispiratore del film "Nella valle di Elah"), mostra un film tutt'altro che schierato, in cui gli americani in guerra riescono a malapena a salvare loro stessi, figuriamoci gli iracheni, e devono occuparsi quasi esclusivamente di portare a casa la pelle e sfidare la sorte ogni volta che lasciano la base. Le missioni non hanno funzione o senso, se non quelli di sfidare la morte in una terra che loro stessi non vogliono conoscere e che, in risposta, non vuole accoglierli, così come il protagonista affonda le mani nelle viscere di un bambino bomba per disinnescare l'ordigno, l'autrice affonda il suo sguardo nelle viscere della sacralità del patriottismo americano, onorando chi rischia la vita per la bandiera ma evidenziando senza ideologismi, retorica o manipolazione politica l'oggettiva inutilità della presenza degli americani in Iraq.

VENEZIA 2008: " The hurt locker " di Kathryn Bigelow (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

" The hurt locker " di Kathryn Bigelow (2008)

Recensione di Daniele Clementi

 

 

Il nuovo film di  Kathryn Bigelow  parla di dipendenza, dipendenza dalla guerra, dalla scarica di adrenalina che produce il corpo quando è a rischio della vita, totalmente ambientato in Iraq, tranne pochi secondi negli Usa, il film racconta il conto alla rovescia per la fine dell’incarico di tre uomini assegnati alla forza artificieri, due soldati marines (uno specialista ed un sergente), e l’artificiere che hanno il compito di proteggere durante le operazioni di individuazione ed eventuale disinnesco delle bombe terroriste.

La storia comincia introducendoci un magnifico artificere, sicuro di se e risoluto nell’azione, interpretato da un convincente Guy Pearce che però muore pochi minuti dopo l’inizio dimostrando che non è solo questione di talento e professionalità e che in Iraq ogni certezza è appesa al filo della sorte. Seguiamo quindi lo sconosciuto Jeremy Renner che prende il posto del personaggio di  Pearce e si rivela ben presto malato di dipendenza alla guerra, la patologia del protagonista però è descritta con raffinata e voluta ambiguità, per tutto il film è posta in secondo piano, si vede  e non si vede, rendendo il soggetto un protagonista ambiguo e suggestivo, al suo fianco il ritratto di due soldati sani e normali che talvolta rischiano proprio per la loro lucidità di essere scambiati come codardi o burocrati, indimenticabile la partecipazione di Ralph Fiennes nel ruolo del contractor che arresta due terroristi segnalati nelle famose carte da gioco dell’Iraq e li perde poco dopo perdendo la sua stessa vita e riconfermando il precetto che in guerra nessuno è predestinato all’eroismo o garantito dal suo status quo.

Un film di guerra dunque che nella resa magistrale dell’azione e delle battaglie, rivela una visione oggettiva ed obbiettivaente negativa del conflitto che descrive, indimenticabile il disinnesco di un autobomba o la lunga scena dell’agguato nel deserto che evoca senza mai copiare il cinema western degli anni 50′.

Bigelow ci mostra un Iraq ostile o nel migliore dei casi indifferente alla guerra degli americani, sono emblematiche le sequenze in cui gli iracheni osservano gli americani disinnescare le bombe come se fosse uno spettacolo e con un sottile sguardo di sfida come se tutto questo non riguardasse loro ma solo i marines ed i loro nemici fondamentalisti.

L’autrice pur ispirandosi ad un libro e basando tutta la struttura del racconto sugli appunti del giornalista enbended Mark Boal (già ispiratore del film "Nella valle di Elah"), mostra un film tutt’altro che schierato dove gli americani in guerra riescono a malapena a salvare loro stessi, figuriamoci gli iracheni, e devono occuparsi quasi esclusivamente di portare a casa la pelle e sfidare la sorte ogni volta che lasciano la base, le missioni non hanno funzione o senso, se non quella di sfidare la morte, in una terra che loro stessi non vogliono conoscere e che di risposta non vuole accoglierli, così come il protagonista affonda le mani nelle viscere di un bambino bomba per disinescare l’ordigno, l’autrice affonda il suo sguardo nelle viscere della sacralità del patriottismo americano onorando chi rischia la vita per la bandiera ma evidenziando senza ideologismi, retorica o manipolazione politica l’oggettiva inutilità della presenza degli americani in Iraq.

Una regia con le palle, anche più grandi della media se si pensa che la regista è una donna.

Clicca qui per leggere la recensione di Antonella Mancini e Paolo Strigini sullo stesso film

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VENEZIA 2008: " The hurt locker " di Kathryn Bigelow (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

Note da VENEZIA
di Antonella Mancini e Paolo Strigini
 

" The hurt locker " di Kathryn Bigelow (2008)

 

 

Iraq 2008. Un film sulla guerra, non un film di guerra né contro la guerra. Ritmo, suspence, due ore abbondanti che volano per mostrarci la guerra attraverso un unico aspetto: il lavoro dell’artificiere sul campo di battaglia. Questa scelta consente di mozzare il fiato quasi ininterrottamente, con un ritmo frenetico: ce la farà Jeremy a rintracciare e tagliare il filo giusto, a riuscirci prima che un timer nascosto o un cecchino in agguato faccia saltare tutti in aria, a cominciare da lui? E’ sempre il sergente Jeremy a rischiare la pelle più di tutti, invano gli altri – specialmente il nero – cercano di trattenerlo, accusandolo di rischiare la pelle di tutta la squadra per soddisfare la sua adrenalina. Ma, come ci viene spiegato nei titoli di testa, “la guerra è una droga”, e quindi solo il rischio estremo può soddisfare i drogati. Si insultano fra loro, questi soldati e arrivano anche a picchiarsi, ma in fondo ci vengono presentati tutti come bravi ragazzi; forse sembrano anche un po’ troppo gentili con gli Irakeni (un colonnello medico, bravo a trattare l’isterismo e l’angoscia dei soldati, salterà in aria proprio per un eccesso ridicolo di cortesia imparata a Yale). Viene da pensare che la regista sia, se non “embedded” come gli unici giornalisti ammessi a raccontare la guerra guerreggiata degli USA, certo – e comprensibilmente – vicina col cuore a questi ragazzi che aspettano la fine della ferma di un anno nell’inferno. Non si direbbe, ma in fondo la regista è una donna, ed è un’americana democratica. E’ vero che in Redacted (mostrato a Venezia l’anno scorso e circolato poco o nulla nelle sale) Brian de Palma non soffriva di questi ritegni. Ma lui ricostruiva una specie di documentario-intervista su un crimine di guerra, come quest’anno l’israeliano Z32. Forse per fare un film contro la guerra e perché la gente lo veda oggi occorre scegliere un episodio che sia esplicitamente criminale ?

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