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Omaggio a Kathryn Bigelow. Ovvero: “La Donna che Gira Come un Uomo”

Ed è arrivato l'Oscar, nel confronto, probabilmente voluto, anche, per ragioni di mercato, con l'ex marito James Cameron. Non parlerò approfonditamente di The Hurt Locker, lo faranno a breve Daniele, Antonella e Paolo. Propongo invece un breve viaggio nella filmografia di questa regista, soffermandomi, in particolare, su un suo film emblematico. Sul suo ultimo lavoro mi limito a dire che personalmente mi risulta in linea con la precedente filmografia della Bigelow, prosegue un percorso e, per certi versi, lo considero una "prova di forza", un'altra, dopo K-19.

Si è misurata con la guerra in Iraq, ma con un'angolatura differente rispetto a molti altri che con il genere "guerra" si sono misurati in passato. Credo che il significato "politico" (dell'era Obama) di questo Oscar sia abbastanza evidente. La prima donna della storia premiata con un Oscar (quasi a supplire la mancata candidatura presidenziale della Clinton) e la "tragedia americana" dell'Iraq. Uno sguardo sull'essere "malati di guerra", ma in fondo in linea con l'americano concetto dei "bravi ragazzi" al fronte.

Kathryn Bigelow è, a mio avviso, una delle registe contemporanee più interessanti, una donna che ha scelto un percorso filmografico particolare. Esordisce nel 1978 con un cortometraggio dal titolo "The Set-Up", che analizza la fascinazione della violenza al cinema. Poi un lungometraggio, in co-regia con Monty Montgomery, e con protagonista Willem Defoe, "The Loveless" del 1982, omaggio al cinema dei "bikers", filone cinematografico nato negli anni Cinquanta, dedicato ai motociclisti on the road, che trae la propria ispirazione da "Il selvaggio" (Marlon Brando per la regia di Laszlo Benedek, Usa 1953).

La sua prima opera importante è "Il buio si avvicina" ("Near Dark", 1987), interessante lavoro che mescola con sapienza due generi, a dire il vero tipicamente maschili: western e horror. Un film di vampiri, ma girato con tempi e modi del western classico (la carovana/roulotte, di una famiglia di vampiri, che si sposta in cerca della terra in cui stanziare e porre le fondamenta del proprio futuro…). Nel 1990 arriva il film che le dà la notorietà, Blue Steel, poi, nel 1991, altro film che ha avuto un discreto successo commerciale anche in Italia, "Point Break", un gangster movie (i rapinatori di banca con le maschere di 4 Presidenti degli Stati Uniti), ma anche un film sui surfisti ed il culto per "l'onda anomala" e per lo "sviluppo muscolare", nel quale, però, con due protagonisti come Keanu Reeves e Patrick Swayze, emergono tematiche relative all'omosessualità maschile latente. Dopo qualche anno di riflessione arriva un grande film "morale" (come lei stessa lo definisce) sulla realtà virtuale, ovvero "Strange Days" (1995), cast importante e sceneggiatura memorabile (scritta dall'ex marito James Cameron), un grande lavoro anticipatore di un filone futuro, a mio avviso. Poi, un lungometraggio solo apparentemente "femminile", come "Il mistero dell'acqua" (The Weight of Water, 2000), in realtà un percorso storico, attraverso un delitto irrisolto del passato, sulla colonizzazione degli Stati Uniti, ed infine, quella che considero una "prova di forza" (la prima, vista oggi, in ordine cronologico), ovvero K-19 (K-19 – The Widowmaker, 2002). La storia vera, trasposta sugli schermi, di un sottomarino russo, nei primi anni Sessanta, in piena guerra fredda, e del soccorso prestato ai russi dall'esercito americano di una base Nato, in prossimità della quale il malfunzionamento di un reattore del sottomarino era in procinto di provocare un'esplosione nucleare. Film claustrofobico, perlopiù girato all'interno del sottomarino, in cui la Bigelow arriva a dirigere un cast interamente composto da uomini, con la "beffa" di un'unica donna che appare in una fotografia.

Ecco, ho delineato questo percorso per poter, seppure parzialmente, dare un'idea del perché la Bigelow è considerata "la donna che gira come un uomo" e per arrivare a quel "Blue Steel" del 1990 che personalmente leggo come il film più efficace nell'evidenziare lo stile della nostra regista. Il titolo del film è riferito all'acciaio blu della pistola d'ordinanza della protagonista del film, una Jamie Lee Curtis (Megan Turner) i cui lineamenti androgini ricordano quelli della stessa regista, e la cui divisa da poliziotto nasconde e schiaccia letteralmente le "rotondità" femminili. E questa donna con la pistola spara, sin dalle prime sequenze del film. E ammazza.

La prima associazione che viene in mente, oltre alla fisionomia della regista e della protagonista del film, è quella del simbolismo psicoanalitico "pistola/macchina da presa/organo sessuale maschile". In inglese, per "sparare" e "girare" (con la mdp) si usa il medesimo termine: "to shoot", e la pistola è un simbolo fallico piuttosto esplicito. L'intero film, da questo punto di vista, sembra una metafora del femminismo come equiparazione donna-uomo. In altri termini, per raggiungere la parità, bisogna comportarsi come un uomo. Per salvarsi, per dominare l'universo maschile e maschilista, quindi, la donna deve, addirittura, "diventare un uomo". Il "femminile" rappresentato nel film, l'amica Tracy, è debole, impotente, e muore alla prima aggressione maschile. L'unico modo, per avere successo, per farsi strada, per non soccombere, è dunque "farsi uomo". Almeno secondo il cinema di Kathryn Bigelow.

Nel riepilogo iniziale della sua filmografia, passando per i generi adottati, abbiamo visto un breve "saggio" teorico sulla violenza cinematografica e la sua presa sul pubblico, un film di bikers, un horror-western, un poliziesco, un gangster movie di ambientazione "sportiva", un film di fantascienza, un mystery "storico", un film sull'esercito e sulla guerra fredda, in cui lo "shooting", il girato, ha come oggetto il maschile, ma anche il piano meta-cinematografico si confronta con una troupe ed un cast pressoché interamente costituito da uomini e lei, la nostra regista, coordina, gestisce e "doma", come un ammaestratore di leoni, un nutrito gruppo di maschi.

Ma non è solo una questione di scelta di "generi" con cui confrontarsi, è anche il suo stesso girato: ritmato, veloce, aggressivo, a porre il tema del femminile che, in qualche misura, nega se stesso per arrivare alla parità dei diritti, e dei risultati, con l'uomo.

So bene che quanto sostengo può non essere condivisibile, ma mi riesce molto difficile non amare questa regista, non essere in qualche modo "orgogliosa" del suo lavoro, della sua sfida costante, e con le stesse armi, al genere maschile. Non riesco a non considerarla la regista più interessante nel panorama contemporaneo. E probabilmente questo è anche un mio limite, oltre che, evidentemente, un limite della stessa Kathryn Bigelow e di molte altre di noi che, nel porsi alla pari dell'uomo, ne replicano le modalità sopprimendo, schiacciando e nascondendo gli aspetti più femminili di se stesse. Ma se questa dinamica può comportare, tra l'altro, ed ecco le conseguenze del limite, la perpetuazione dello schema culturale maschilista di sottomissione, con la forza, del femminile, come non riconoscergli la riuscita, o quanto meno l'efficacia?

Quello che, però, continuamente mi domando, è: c'è un'altra scelta? Oppure se ci si vuole confrontare con ruoli come quello del poliziotto, o del regista di film d'azione, o di un qualsiasi ruolo che è da sempre considerato prerogativa dell'uomo, spesso correlato all'esercizio del potere, è la donna a scegliere di conformarsi a stilemi maschili o non è piuttosto l'imprinting culturale a lasciarci solo questa strada, di elisione, almeno apparente, della femminilità? Sapete cosa rispondevano i produttori alla Bigelow quando, agli inizi, presentava le sue sceneggiature "d'azione" ai produttori? Ecco le sue stesse parole: "Erano tipi di film che, mi dicevano, non sono adatti alle donne. Continuavo a ricevere risposte del tipo: ecco una storia delicata, perfetta per una donna. Mentre le mie sceneggiature ricevevano risposte del tipo: c'è troppa ferramenta, troppa tecnologia. Non so cosa ne potrai tirar fuori…" (da "Kathryn Bigelow" a cura di Massimo Causo, Sorbini ed., 1997).

PippiJ.Hoover