Archivio mensile:novembre 2008

TORINO 2008: "Laden ratte komma in / Let the right one in" di Tomas Alfredson (2008)

TORINO FILM FESTIVAL 2008

(c) Torino Film Festival

 

TORINO 2008: "Laden ratte komma in / Let the right one in" di Tomas Alfredson (2008)

Recensione di Daniele Clementi

 

 

Questo piccolo film svedese, girato con sobrietà e minimalismo, obbliga lo spettatore a riflessioni morali sull’estetica del cinema di oggi e sull’uso che la comunicazione visiva sta facendo dei corpi dei bambini. La storia è quella di una giovane vapira di 12 anni che vive servita e riverita da un vecchio uomo fedele e profondamente innamorato della bambina, la notte l’uomo esce in cera di sangue umano per la piccola vampira ma la sua incapacità di onorare l’impegno obbliga la giovane vampira a cercare da sola le sue vittime. Durante le sue notti di caccia incontra un bambino, un ragazzo molto sensibile, solitario e molto timido, fra i due nasce un amicizia che sfocia presto in amore (per quello che può essere l’amore fa due dodicenni) ma la ricerca di definire la sua sessualità ed i misteri che ruotano intorno alla bambina vampira obbligano il protagonista ad un viaggio iniziatico verso l’oscuro e contenporaneamente verso la pubertà. Il film , intelligente nell’idea, attento nella costruzione estetica cade talvolta nel ridicolo involontario (come nel massacro finale in piscina) ma ciò he più turba lo spettatore è la chiara associazione sessualità e violenza così esplicitamente applicata su corpi di bambini. La scena della rivincita del giovane protagonista passa per una sorta di estasi della violenza che non manca di lasciare sorpresi e turbare, così come la scelta di fare giacere nudi i due bambini o il mostrare con l’ausilio della computer grafica un pube di donna anziana su corpo della bambina. L’interrogativo è semplicemente questo: l’arte deve avere un limite di fronte all’uso del corpo di un bambino ? Mentre mi pongo l’interrogativo esposto , spostandomi dalla sala in cui ho visto il film verso un bar ,passo di fronte ai manifesti pubblicitari di un centro commerciale di vesiti che mette in bella mostra bambine di 8 anni in pose da fotomodelle (anche se fortunatamente caste) e realizzo che lo sguardo provocatorio di Alfredson è solo un passo più avanti della pubblicità di oggi ed inevitabilente mi interrogo su una società che giustamente condanna (e forse troppo poco) le pulsioni sessuali di un pedofilo ma usa come oggetto di una comunicazione meta-sessuale anche il corpo del minore.

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TORINO 2008: "Etz limon – Lemon Tree" di Eran Riklis (2008) – Il giardino di limoni

TORINO FILM FESTIVAL 2008

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TORINO 2008: “Etz limon – Lemon Tree” di Eran Riklis (2008)

Recensione di Daniele Clementi

Un racconto metaforico, quasi una favola, che riassume con ironia, apparente leggerezza ed una buona dose di fantasia il conflitto israeliano palestinese. Forse l’essenza metaforica risulterà troppo rivelata, troppo in superfice al pubblico più raffinato, così comela scelta di chiamare il Ministro della difesa Israeliano come la sua nazione, o la presenza imponente delle immagini in videocamera che raccontano la costruzione del muro e metaforicamente scandiscono il phatos del film, ma questa elementarità e questa volontà di lasciare in superfice l’essenza del racconto rende il fim digeribile a chiunque e proponibile anche in una scuola. Il Ministro Israel si trasferisce al confine con la Palestina, il confine è segnato da un giardino di limoni in terra di Palestina che per la protagonista araba rappresenta la prosecuzione della tradizione e della cultura paterna. Mentre la sicurezza israeliana fa pressioni perchè il giardino venga distrutto e la vita coniugale del Ministro crolla in progressione verso la separazione, la donna palestinese aiutata da un giovane avvocato combatte con appelli ed obiezioni giuridiche alla distruzione del suo giardino e contemporaneamente cerca di fare rifiorire la sua sessualità e la sua voglia di vivere rischiando la condanna della comunità misogena fondamentalista, ogni scena è una metafora, anche ironica ed ammiccante, del confitto israeliano palestinese, ogni minuto una piccola cronaca di quel grande libro fatto di conflitti, guerre ed intoleranza che l’Europa preferisce ignorare o mettere da parte.
Ma la componente salvifica del film è raffigurata dalla linea femminile, due donne che si osservano in silenzio dalle opposte barricate di due culture, la donna araba che cerca di salvare i suoi limoni ed la moglie del Ministro che cerca di salvare il suo matrimonio messo a repentaglio dalla relazione amorosa che il marito consuma con una giovane donna ufficiale collocata al suo fianco per garantire la fedeltà del Ministro all’esercito israeliano. E’ una donna anche il Giudice della Corte Suprema che dovrà dirimere la controversia simbolica e dovrà fare i conti con la profonda ferita che segna una terra devastata. Forse il film non ha la potenza del cinema di Suleiman, che ironizza forse con una poesia e profondità intellettuale più fini sul conflitto, ma resta un titolo didatticamente utile per ragionare sul conflitto e per capire in modo semplice ed elementare la natura di una guerra che sembra non avere mai fine.

 

TORINO 2008: "Helen" di Christine Molloy e Joe Lawlor (Irlanda 2008)

TORINO FILM FESTIVAL 2008

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TORINO 2008: "Helen" di Christine Molloy e Joe Lawlor (Irlanda 2008)

Recensione di Daniele Clementi

 

 

La camera segue una ragazza dal giubbotto di pelle giallo, la vediamo in panoramica dall’alto mentre saluta le amiche ed allontanandosi attraversa un parco, la vediamo di spalle mentre osserva una selva più fitta e poi di lei sapremo solo ciò che i ricordi dei genitori e le indagini della polizia possono dirci : quasi nulla. Nel tentativo di ricostruire le ultime ore di Joy prima della sua scomparsa la polizia si reca nella scuola della giovane e sceglie una ragazza che le possa sufficentemente somigliare invitandola a collaborare nella ricostruzione televisiva. Helen è orfana, non sa nulla delle sue origini e vive in un orfanatrofio pubblico irlandese, pulisce le camere di un albergo per pagarsi gli studi, non ha amici e deve ancora capire cosa sia la sua identità, improvvisamente si ritrova quel giubbotto di pelle color giallo addosso, lo stesso di Joy rinvenuto fra i cespugli, a cena dai genitori di Joy e parla con il fidanzato della ragazza, improvvisamente Helen scopre cosa sia la vita, cosa significhi avere una famiglia, cosa voglia dire avere un compagno e cerca di comprendere cosa sia lei rispetto a tutto questo e che cosa siano le sue origini. Un piccolo film minimalista ma garbato, essenziale anche se un po gelido che esplora il lutto e la ricerca dell’identità con cura e raffinatezza, uno sguardo diverso ed originale che si arricchisce di uno sviluppo narattivo semplice ma avvincente, privo di colpi di testa o di velleità da grandi autori ma molto elegante e forbito nella messa in scena. Un piccolo film di nobile fattura che difficilmente vedremo distribuito nelle sale ma che meriterebbe uno spazio di rilievo nell’apatico panorama della distribuzione italiana.

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TORINO 2008: "Made in America" di Stacy Peralta (2008)

TORINO FILM FESTIVAL 2008

(c) Torino Film Festival

 

TORINO 2008: "Made in America" di Stacy Peralta (2008)

Recensione di Daniele Clementi

 

 

C’è un posto in cui i bambini vengono profondamente traumatizzati dalla morte, dalla guerra e dalla violenza con la stessa intensità dei bambini di Baghdad, un posto dove i ragazzi si uccidono senza nemmeno sapere il perchè solo a causa di un colore che si portano addosso, un posto dove le armi sono facili da trovare e ti vengono messe in mano all’età di 11 anni. Questo posto per quanto incredibile possa sembrare si trova fra Hollywood e Disneyland, questop posto si trova nel sud di Los Angeles. Il regista, surfista e skater Stacy Peralta ha colpito ancora, anni dopo il magnifico documentario "DOGTOWN AND THE Z BOYS" e "RIDING GIANTS" sceglie di trattare un tema difficile, teso e scottante come l’eterna battaglia frai i "Crips" ed i "Blood", rispettivamente i blu ed i rossi dei quartieri poveri afroamericani di Los Angeles. Nessuna retorica, nessun facile moralismo nello sguardo lucido e pulito di Peralta solo la volontà di fotografare una guerra lunga quasi 50 anni intrisa di profonda storia dell’America moderna e totalmente rimossa dalla coscienza collettiva, segregata nel suo ghetto e trattata come se non fosse altro che una questione fra piccoli criminali. Peralta riesce a raccontare la storia della comunità afroamericana del South Los Angles in modo profondamente preciso e con la minuziosità di uno storiografo. Il film parte dal 1950 quando gli afromaericani dovevano conquistarsi a fatica i diritti che avevano sulla carta, mostra la nascita di un club che la polizia preferiva chiamare gang dove il combattimento era previsto ma rinchiuso nella lelatà di una battaglia a colpi di pugni, racconta tramite i volti di quelli che fecero la storia i momenti chiave della nascita delle moderne gang ed improvvisamente si comprende qualcosa che forse ci era stato occultato da una ricostruzione della storia troppo "bianca". Peralta racconta la storia di una comunità che improvvisamente si ritrova a dover affrontare dei mutamenti dettati dalla droga dalla troppa facilità di trovare armi e da una spinta invisibile ma evidente che per frenare la forza afroamericana, riesce a creare fratture interne sino a fare si che il peggior nemico della comunità afroamericana sia se stessa, oggi le gang combattono fra di loro senza conoscere il vero motivo per cui succede, chi li ha spinti alla guerra che dura da anni non si conoscerà mai eppure si comprende che se per un solo istante questa forza si ricomponesse e si riunisse sarebbe ancora in grado di rifondare un movimento espressivo e politico fra i più determinanti dell’America moderna. Una pagina di storia americana dimenticata che Perlata riesce a far riaffiorare e che con l’avvento dell’"Obama wave" potrebbe finalmente ritrovare con forza ed inesorabilità il suo posto nelle pagine di storia con o senza l’approvazione di noi uomini bianchi.

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TORINO 2008: "W." di Oliver Stone (2008)

TORINO FILM FESTIVAL 2008

(c) Torino Film Festival

TORINO 2008: “W.” di Oliver Stone (2008)

Recensione di Daniele Clementi

Forse per capire a fondo l’operazione di Oliver Stone bisogna essere americani, forse solo così si può razionalmente giustificare la scelta del regista di raccontare uno degli uomini più potenti della storia contemporanea come un bamboccio figlio di papà, ingenuo,emotivo ed anche molto infantile, omettendo pagine chiave della sua formazione politica, eventuali intrallazzi e perfino le relazioni politiche più discutibili. Forse noi italiani siamo troppo macchiavellici nella letture delle cose e vogliamo sempre guardare nel torbido più profondo (Gomorra e Il Divo docet) piuttosto che gongolarci dei difetti supeficiali dei nostri politici. Con questi due “forse” cerco di giustificare la delusione nel vedere un bel film girato con eccellenza ed interpretato magistralmente da una rosa di vecchie glorie e da qualche giovane promessa del cinema americano ma privo di spessore politico, povero nella misura satirica e perfino troppo accomodante nella critica morale. La storia del giovane Bush raccontata da Stone è ricolma di peccatucci molto umani e produce perfino un senso di tenerezza verso questo strano Presidente degli Stati Uniti che si rompe uno zigomo a causa di un salatino incastrato in gola o che decide di rinunciare al dessert in onore dei caduti in Iraq. Non si possono nemmeno negare i tentativi di Stone di evidenziare il peso di certe figure che influenzarono violentemente l’ascesa politica di Bush e le sue scelte strategiche di leader politico. Nemmeno si può dire che Stone non abbia evidenziato i veri motivi della guerra in Iraq (dettagliatamente spiegati da Cheney/Dreifuss) ben lontani dagli slogan stile “Portiamo la democrazia in Iraq” ma il film di Stone, nonostante tutti questi nobili tentativi sembra troppo superficiale, leggero ed anche troppo accodiscendente, si ripensa alle relazioni fra la famiglia Bush ed i sauditi raccontate nel film di Michael Moore “Farenheit 9/11” e qui completamente rimosse nonchè ad altre questioni decisamente più scomode di questo comandante in capo che Stone sceglie di tralasciare per un ritratto comico ed affettuoso, forse in questo perfino nobile e poco “di parte” ma anche decisamente scondito per il palato macchiavellico di noi italiani.

TORINO 2008: Introduzione

TORINO FILM FESTIVAL 2008

(c) Torino Film Festival

 

TORINO 2008: Introduzione

 

(c) Torino Film Festival

 

Comincia oggi il Torino Film Festival diretto da Nanni Moretti, per tutta la durata della manifestazione questo blog sarà dedicato interamente al festival con recensioni dei film presentati.

Come primo post pubblichiamo un estratto dal comunicato stampa del festival.

TORINO FILM FESTIVAL – 26^ EDIZIONE

(21 – 29 novembre 2008)

Diretto per il secondo anno da Nanni Moretti, TORINO FILM FESTIVAL offrirà ancora una volta – tra scoperta e riflessione critica – uno sguardo a 360 gradi sul cinema contemporaneo, i suoi linguaggi, i suoi autori. E lo farà con la volontà di far emergere dalle zone d!ombra del cinema mondiale quel "nuovo" che ne ha da sempre caratterizzato il percorso di ricerca e gli ha guadagnato un posto di primissimo piano tra i maggiori festival internazionali.

Le sezioni di questa edizione: Saranno circa 30 i lungometraggi fra CONCORSO e FUORI CONCORSO di TORINO FILM FESTIVAL 2008.

TORINO 26 – CONCORSO INTERNAZIONALE LUNGOMETRAGGI (Miglior film, euro 25.000; Premio speciale della Giuria, euro 10.000) è la sezione principale del Festival, dedicata alla ricerca e alla scoperta dei nuovi autori del cinema contemporaneo, rivolta in particolare alla valorizzazione e al confronto del cinema indipendente di ogni latitudine e paese, senza preclusioni di generi e linguaggi, aperta perciò anche ai documentari.

FUORI CONCORSO, in equilibrio tra ricerca e spettacolo, tra autorialità e tendenza, tra finzione e documentario, la sezione si propone come sintesi degli spunti cinematografici più significativi dell!anno. A

Torino si avvicenderanno, in anteprima italiana, europea o mondiale, film di genere ed esemplari della produzione d!autore, mode e anticipazioni, provocazioni e omaggi. Senza preclusioni né verso il cinema

spettacolare né verso la ricerca rigorosa, e con un!attenzione costante e particolare al lavoro più recente dei registi che sono stati importanti nella storia del Festival e, in generale, del cinema indipendente di ogni paese.

LE ALTRE SEZIONI:

ITALIANA.DOC (Miglior documentario italiano, euro 10.000; Premio speciale della Giuria, euro 5.000)

ITALIANA.CORTI (Miglior cortometraggio italiano, euro 10.000)

LA ZONA

L!AMORE DEGLI INIZI

LO STATO DELLE COSE

INTERNAZIONALE.DOC

RETROSPETTIVE dedicate rispettivamente a:

– Roman Polanski

– Jean-Pierre Melville

– Al movimento cinematografico inglese degli anni 1980-1990

La serata inaugurale della 26^ edizione del TORINO FILM FESTIVAL si svolgerà nella prestigiosa sede del TEATRO REGIO di Torino.

La 26^ edizione di TORINO FILM FESTIVAL avrà luogo nei Multisala Ambrosio, Greenwich Village, Massimo e Nazionale, per un totale di 11 sale.

Ciao Paolo

Ciao Paolo,

Io ho aspettato la fine delle cerimonie per scriverti, ho aspettato perchè volevo sentire, ascoltare, capire almeno qualcosa ancora di quello che hai rappresentato per gli altri, è ovvio però che per ognuna delle persone che sono state presenti al tuo saluto tu fossi un Paolo diverso, unico, e solo nelle generalità condivisibile, inutile citare troppo Pirandello in questo, che perdo tempo a fare, è tutto ovvio, chiaro anche troppo classico. Ti scrivo sapendo che non puoi leggermi ma sperando che chi ti è stato vicino e chi no, chi ti ha conosciuto e chi no possa leggere queste mie righe a te rivolte come saluto e come primo riassunto della mia esperienza, di quella piccola parte di percorso di vita condiviso insieme, sono tantissime le persone con cui camminiamo nella vita, alcuni li sentiamo di più, altri di meno, molti li dimentichiamo, altri ancora li ricordiamo con dispiacere o con disperazione, oppure con devozione ed affetto, io voglio conservare le battaglie del nostro percorso, le battaglie che intellettualmente abbiamo combattuto anche solo commentando quello che il mondo faceva ed a noi non stava bene, le battaglie in cui ci siamo confrontati quando non condividevamo le medesime opinioni sullo stesso film. Sono quelle battaglie che mi sono più care alla fine, quei momenti in cui si buttava fuori il sentito ed il pensato che diventavano il vissuto indispensabile per conoscersi e capirsi di più. Sono le battaglie con cui ci siamo sentiti e conosciuti di più, avvicinati allontanandoci perchè così funzionano le comunicazioni più intense e talvolta conflittuali, mi manca e mi mancherà sempre non avere potuto parlare di Obama, mi manca non poter vedere con te il film di Stone sulla vita del secondo Presidente Bush "W", che sono certo andrà violentemente in un senso e mi mancherà quella lucida ostinazione con cui tu avresti potuto rilevarne quell’eccessivo schierarsi, quell’essere demagogici in cui uno come Stone dall’alto della sua sapienza cinematografica potrebbe cadere, mi mancherà la tua visione vissuta dell’America che era un terreno importante dei nostri confronti e quell’epoca che io visto attraverso il Cinema e che tu hai vissuto e filmato con macchine da presa amatoriali e con gli occhi e la mente di una persona che è stata nella storia in modo vero ed attivo.Non le potrò ritrovare ma tenterò di cercarle sempre dentro di me, non penso che smetterò facilmente di chiedermi di fronte ad un certo film come avresti reagito e cosa avresti detto, forse non riuscirò ad indovinarlo ma me lo domanderò sempre, perchè portandoti nella materia che più mi appartiene e più mi coinvolge ti porterò sempre con me, nel modo migliore ed in quello che penso anche tu avresti preferito. Ciao Paolo, ci vedremo al Cinema, quando vedendo e sentendo un opera cercherò di trovarti per sentirti presente.

Qui di seguito trovate raccolte tutte le recensioni che Paolo scrisse per il blog, alcune fatte a quattro mani con Antonella, altre autonome, tutte piccoli frammenti del grande puzzle che compone una persona. Non basterà per conoscerlo, non servirà per capirlo ma in ogni piccolo sforzo di ciascuno di noi c’è un contenuto che viene donato agli altri ed è per onorare quel contenuto che le propongo in questo omaggio. Le recensioni non sono in ordine cronologico perchè ho voluto evidenziare una particolare attenzione rivolta al difficile tema della guerra in medioriente. Buona lettura.

Daniele.

 

Domenica, 02 settembre 2007

Note da VENEZIA

di Antonella Mancini e Paolo Strigini

 

" Redacted " di Brian De Palma (2007)

Pareri discordi in sala, dopo la visione di questo attesissimo film. Molti applausi, che non abbiamo capito, molti (fra cui noi) sono restati lì come sassi. Personalmente ne siamo usciti devastati, con un deserto dentro. Oggettivamente, il film non è gran che: lento, senza trama, immagini fisse, dialoghi cretini, attori di brutto aspetto e mediamente antipatici, per giunta un finto documentario e, come se non bastasse, un soggetto trattato già in mille salse – figurarsi la guerra! – ma che pizza! Ebbene, è proprio questo che decreta la grandezza del film e il coraggio di De Palma nell’essersi avventurato in una simile impresa di denuncia: raccontare la banalità della guerra. E’ questa banalità che prende dentro e lascia un groppo del quale è difficile liberarsi. E’ questo mostrare, pezzo per pezzo, come attraverso le cose più stupide, le più sceme, si costruiscano degli assassini che non sanno nemmeno di esserlo. O meglio, fanno maldestramente finta di non saperlo, recitando la parte del soldato che fa solo il suo dovere, fra mille difficoltà e in mezzo a una banda di nemici assetati di sangue. Però all’inizio vediamo questi futuri assassini sudare a un posto di blocco dove ci vogliono cinque minuti (in tempo reale) per far passare una macchina, scrutando in giro per vedere se qualcuno (giustamente) vuol farti saltare in aria, (e a volte ci riesce) o imprecando a chi ti ha mandato in questo posto di merda.

Una cronaca ricostruita con pazienza e rigore, come il delitto dei due balordi raccontato da Truman Capote in A sangue freddo. Un film tragico, dunque, e pessimista, che va al cuore della natura umana, a scanso del tono dimesso per il quale molti hanno sentito il dovere di criticarlo. Ci sorge il dubbio che queste critiche nascondano una presa di distanza difensiva, una sorta di paura di fronte all’abisso della nostra miseria, a quanto siamo pronti a diventare creature ignobili non appena saltano gli schemi rassicuranti entro cui siamo abituati a incanalare le nostre vite. Meccanismi psicologici analoghi a quelli scattati al tempo dei campi di sterminio nazisti, dove era la "normalità" a prevalere, e non l’anomalia. O forse sono così solo gli Americani ?

 

sabato, 06 settembre 2008

Note da VENEZIA

di Antonella Mancini e Paolo Strigini

 

" The hurt locker " di Kathryn Bigelow (2008)

Iraq 2008. Un film sulla guerra, non un film di guerra né contro la guerra. Ritmo, suspence, due ore abbondanti che volano per mostrarci la guerra attraverso un unico aspetto: il lavoro dell’artificiere sul campo di battaglia. Questa scelta consente di mozzare il fiato quasi ininterrottamente, con un ritmo frenetico: ce la farà Jeremy a rintracciare e tagliare il filo giusto, a riuscirci prima che un timer nascosto o un cecchino in agguato faccia saltare tutti in aria, a cominciare da lui? E’ sempre il sergente Jeremy a rischiare la pelle più di tutti, invano gli altri – specialmente il nero – cercano di trattenerlo, accusandolo di rischiare la pelle di tutta la squadra per soddisfare la sua adrenalina. Ma, come ci viene spiegato nei titoli di testa, "la guerra è una droga", e quindi solo il rischio estremo può soddisfare i drogati. Si insultano fra loro, questi soldati e arrivano anche a picchiarsi, ma in fondo ci vengono presentati tutti come bravi ragazzi; forse sembrano anche un po’ troppo gentili con gli Irakeni (un colonnello medico, bravo a trattare l’isterismo e l’angoscia dei soldati, salterà in aria proprio per un eccesso ridicolo di cortesia imparata a Yale). Viene da pensare che la regista sia, se non "embedded" come gli unici giornalisti ammessi a raccontare la guerra guerreggiata degli USA, certo – e comprensibilmente – vicina col cuore a questi ragazzi che aspettano la fine della ferma di un anno nell’inferno. Non si direbbe, ma in fondo la regista è una donna, ed è un’americana democratica. E’ vero che in Redacted (mostrato a Venezia l’anno scorso e circolato poco o nulla nelle sale) Brian de Palma non soffriva di questi ritegni. Ma lui ricostruiva una specie di documentario-intervista su un crimine di guerra, come quest’anno l’israeliano Z32. Forse per fare un film contro la guerra e perché la gente lo veda oggi occorre scegliere un episodio che sia esplicitamente criminale ?

 

venerdì, 05 settembre 2008

Note da VENEZIA

di Paolo Strigini

 

" Z32 " di Avi Mograbi (2008)

Insolito. che un film intimista parli di un crimine di guerra. Si tratta dell’uccisione di due poliziotti palestinesi da parte di un ragazzo israeliano in un’azione che si chiama ed è "vendetta". Vendetta per la morte di sei genieri israeliani uccisi in un agguato della seconda intifada. Il ragazzo è stato arruolato in un’unità di elite, sballottato per mesi in viaggi lunghissimi durante i quali i soldati dormivano, per svegliarsi in posti sconosciuti. L’addestramento consisteva soprattutto in un martellante ammonimento che anche un bambino di cinque anni può essere un terrorista (e, come paradossale conferma, i soldati vedranno quattro ragazzini arabi che saltano in aria mentre vanno a scuola).

Ma il film si snoda col ritmo e lo stile di un un rito ebraico, monotono e ripetitivo, sia nei brani di interviste che nelle canzoni salmodianti che che li commentano come un coro greco. Si può fare un film, o una canzone, o un’opera d’arte su un crimine? Si può domandare comprensione o addirittura perdono (magari invocando l’addestramento e la propaganda o gli ordini superiori)? I protagonisti dell’intervista –il soldato che ha accettato di testimoniare e di rispondere alle domande della sua ragazza che vuole sapere e scava e interroga, anche con gli sguardi e i silenzi- non hanno risposte. Quello che più angoscia entrambi è che quando finalmente entrano in azione, i soldati sono contenti (e addirittura provano piacere) di sparare e di uccidere. La ragazza sottolinea il fatto che il soldato prima chiedeva comprensione, ora chiede perdono, il che implica l’ammissione di aver commesso un crimine. Ma il perdono non si può dare, perché né la confessione né il pentimento possono cancellare una colpa: gli ebrei non sono cattolici – fra loro non usa, come fra noi, diventare "pentiti" strumentalmente. Non è facile essere ebrei israeliani, e nemmeno fare un film su un conflitto come quello fra loro e i palestinesi, che non si vedono mai. Il conflitto di cui si parla qui è quello dentro un assassino e a chi gli sta accanto e gli vuol bene.

 

martedì, 02 settembre 2008

Note da VENEZIA

di Antonella Mancini e Paolo Strigini

 

" Shirin " di Abbas Kiarostami (2008)

L’ultima fatica di Kiarostami è, a dirla con un’espressione sintetica, una palla pazzesca. E già al pensarlo uno si sente colpevole e traditore. Figuriamoci a scriverlo. "Palla" resta, però ambigua e contraddittoria, perché da un lato è frutto di un colpo di vero genio e, dall’altro, l’esito di una eccessiva – e fastidiosa – considerazione di se stesso (eufemismo che sta per narcisismo). Il tutto poi è complicato dal "messaggio", politicamente più che corretto: elogio dei valori democratici e, soprattutto, elogio delle donne (corre l’obbligo ricordare che siamo in area mussulmana e che il regista, col suo nutrito clan, ha dovuto abbandonare l’Iran da qualche anno).

Qual’è la trovata geniale? Il film è costituito solo ed esclusivamente dallo scorrere di una galleria di volti di donne che, in silenzio, guardano un’opera teatrale (ma potrebbe anche essere un film). La camera si sposta dall’uno all’altro volto – più di un centinaio – indulgendo sui minimi mutamenti di espressione delle spettatrici. Fuori campo, di tanto in tanto echeggia la voce narrante della vicenda rappresentata: un poema persiano del XII secolo, dove l’eroina è tale principessa Shirin (che dà il nome al film). La storia, di cui non si vede mai, proprio mai, alcunché, salvo illustrazioni d’epoca in apertura, è talmente appassionante (quanto intricata e intrigante) che finisce per catturare anche lo spettatore (un po’scettico) delle spettatrici di Kiarostami. Una sotto-idea altrettanto geniale è che le 114 "attrici" mute del film di Kiarostami non sono lì a caso ma sono state scelte tra le migliori attrici del cinema e teatro iraniani (unica presenza spuria, anch’essa col velo come tutte, è Juliette Binoche). E questo, oltre che un omaggio galante alla femminilità, è anche un coraggioso riconoscimento del loro valore di donne-artiste, se non una sfida all’establishment iraniano. Un velo che non è certo un chador, ma da cui spuntano ciocche di capelli e addirittura – lo spettatore maschio iraniano potrebbe restare senza fiato – può scivolare via, e comunque sottolinea la bellezza e l’intensa espressività dei volti. Quasi sempre singoli, e mai più giù del collo fasciato dal velo: uno schiaffo al nostro cinema scollacciato e alla nostra vantata libertà sessuale?

Ma allora, dove la faccenda non funziona? Nella lunghezza – 92 minuti – per tutta l’operazione. Troppo per ritratti a camera fissa pur con un romantico commento musicale ora di sottofondo ora in sordina a una voce narrante intervallata da interminabili silenzi. Troppo anche tenuto conto della bravura delle attrici, che con l’intensità e la varietà (più o meno belle, più o meno giovani, più o meno sentimentali) delle loro reazioni personali, colorano il racconto che si svolge davanti ai loro occhi. Si può restare affascinati e financo rapiti da una trovata simile per… un massimo di 30 minuti, ma poi, quando i volti ritornano, quando il gioco continua, non se ne può più dalla noia e ci si chiede, con un po’ di senso di colpa alimentato dalla crescente irritazione "ma chi si crede di essere questo qui da infliggerci tale penitenza?" Si vorrebbe anche capire un po’ meglio la storia romanticamente tragica che affascina e seduce, fa piangere e – raramente – sorridere le romantiche signore velate del film.

E può venire in mente anche una mostra fotografica di Kiarostami, abbinata a un concorso cui parteciparono nel 2007 oltre mille foto più o meno professionali provenienti dall’Iran. Il regista mostrava un centinaio di vedute bianco e nero di strade serpeggianti fra prati, boschi, monti, paesaggi vuoti sotto il sole o la neve, dove ogni albero, sterpo, filo d’erba aveva una presenza viva e concreta: raramente un viandante lontanissimo o un mulo o un bambino accompagnato facevano capire che la terra è ancora abitata. Ebbene, nella sua presentazione Kiarostami affermava testualmente di preferire la fotografia al cinema, perché più libera, la prima, dai vincoli imposti al secondo di attenersi a una storia, permettendo così ad autore e spettatore di sognare, soffermarsi su un dettaglio o andarsene via, ritornare o cambiare aria. Ma allora, Kiarostami, perché ci costringi a stare lì per 92 minuti a seguire la tua non-storia?

 

venerdì, 15 giugno 2007

" La Città Proibita " di Zhang Yimou

Recensione di Paolo Strigini

Un kolossal, anche se forse non sarà costato cifre stratosferiche grazie agli effetti speciali. Kolossal nelle intenzioni e nei risultati, con musiche alla Hollywood, con masse rutilanti d’oro e d’argento, killers neri cattivissimi armati di falce, sfondi rossi di tutte le sfumature dalla porpora di Alessandro, degl’imperatori e dei papi romani al sangue che sgorga e cola in pozze (anche se teste e membra mozzate s’intuiscono, ma non si vedono mai), alla violenza delle passioni e dei dialoghi più o meno shakespeariani.

Fa anche paura pensare che i Cinesi (come fanno a esser così numerosi dopo tanti massacri?) si rappresentino come formiche guerriere pronte solo a lanciare urrah, uccidere e farsi scannare: i guerrieri di terracotta sepolti a Sian sembra che mostrino molta più individualità. Poi uno pensa anche a quante radici (le patate non c’erano) avranno dovuto mangiare i milioni di contadini a cui toccava mantenere, armare e decorare tutti i bellimbusti della corte imperiale e i loro eserciti.

I quali, certo, non si divertono (anche i ricchi piangono). Anzi, soffrono tremende pene d’amori impossibili o traditi e di ambizioni insaziabili del potere. Prima di tutti l’imperatore, l’unico che (scopriamo) sapeva tutto, dal tradimento della bella moglie alle complicate parentele della sua corte, e rimane vivo (probabilmente lui solo) alla fine, su tappeti di cadaveri e di crisantemi. Poi c’è l’imperatrice, l’affascinante e misteriosa Gong Li dai sorrisi avari e preziosi, che sorseggia la sua cicuta anche dopo esserne stata avvertita, l’amletico principe, figlio dell’"altra", che lei seduce e tenterà invano di uccidersi, mentre ci riuscirà l’altro principe, figlio di lei, dopo aver guidato un esercito sterminato all’ecatombe. Eh sì, perché la Città proibita è difesa da mura semoventi, meglio del G8 e d’Israele. Eccetera.

Certo non mancano scene indimenticabili, ad esempio quando i killers neri con le loro falci si calano come teleferiche nel canyon dove stanno fuggendo i nostri cowboy. O quando Gong Li attraversa come una tigre una sfilza di saloni rossi per scoprire la tresca fra il suo figliastro-amante e la di lui sorella (ma loro ancora non lo sanno) Chan, la quale si nasconde in un armadio ma, sotto i nostri occhi e quelli dell’imperatrice, ritira lentamente la sua lunga cintura viola che era rimasta fuori.. O anche il disfarsi delle maschere regali e insieme lo sciogliersi dei lunghi capelli neri della coppia imperiale alla fine della tragedia.

Ma non mi si venga a dire che questo è cinema (di quello che resta oltre una serata). Né che Zhang Yimou aveva qualcosa da dire. Né che noi non possiamo capirlo perché non siamo cinesi. Forse voleva dimostrare che anche loro possono fare Alessandro Magno o i 300 di Leonida come a Hollywood? C’è riuscito. O, più ambiziosamente, voleva dipingerci un imperatore cinese (forse il primo che unificò la Cina dopo l’anarchia dei "Regni combattenti"?) come il suo omologo Ivan il Terribile di Eisenstein? Magari con un messaggio segreto, come là contro Stalin, qui contro il regime di Pechino. Ma per rispondere a questa domanda, a parte che ci sia o no riuscito, ebbene allora bisognerebbe proprio essere cinesi. E di quelli nonconformisti.

 

sabato, 06 settembre 2008

Note da VENEZIA

di Antonella Mancini e Paolo Strigini

 

" BirdWatchers – La terra degli uomini rossi " di Marco Bechis (2008)

Un film che sta facendo parlare molto di sé: presentato e accolto come il più "impegnato" della Mostra, si è da subito posizionato come un "bel" film senza incontrare grossi ostacoli, in una rassegna, questa 65° di Venezia, che ad oggi può tranquillamente qualificarsi come la più brutta e sgangherata degli ultimi anni. Il film di Bechis è un film onesto, con un inizio, uno svolgimento e un finale "aperto", il che è già molto, dato il tema; ma è anche un film privo di slanci registici e di sorprese, diremmo se non noioso, almeno piatto e prevedibile. E magari non privo di emozioni, ma incapace di suscitarne di nuove e profonde.

Poi c’è il contenuto, decisamente "politico", che rimanda alle questioni della mondializzazione e che viene esemplificato nel delicato rapporto tra uomini bianchi e "uomini rossi", tra fazenderos e indios. Bechis è bravo nel non prendere le parti degli uni o degli altri, presentandoci una situazione densa di contraddizioni, rapporti ambivalenti, intrecci difficili da sbrogliare, ma mostra i limiti di una lettura che può risultare semplicistica, talvolta acritica, a tratti nascostamente faziosa. Invece ci fanno sorridere gli indios di Bechis quando si riprendono la "loro" terra accampandosi lungo una strada asfaltata di grande traffico, ignorando la foresta da cui provengono e che è appena 200 metri più in là, o quando, ormai divenuti incapaci di cacciare, l’unica bestia che riescono a prendere è una vacca sfuggita alla stalla del fazendero. La foresta si è ridotta a fare da sfondo ai travestimenti da selvaggi per la gioia dei turisti, Birdwatchers appunto. E fa pensare il fatto che i giovanissimi suicidi vengano interrati coi loro simboli demoniaci di corruzione: il telefonino, la scarpa da ginnastica. Contro tutta questa corruzione tuonano lo sciamano e il capo tribù. Invano. Ora, non si tratta di decidere (dal nostro punto di vista di bianchi, più o meno afflitti dai sensi di colpa) chi sono i buoni o i cattivi. Quello che vorremmo capire è se è possibile una conciliazione o almeno una coesistenza fra le due culture, o se ognuna delle due è condannata al suo proprio destino autodistruttivo. Insomma, ci sarebbe piaciuto che Bechis, se non la soluzione, ci avesse presentato esplicitamente il problema.