Ciao Paolo,
Io ho aspettato la fine delle cerimonie per scriverti, ho aspettato perchè volevo sentire, ascoltare, capire almeno qualcosa ancora di quello che hai rappresentato per gli altri, è ovvio però che per ognuna delle persone che sono state presenti al tuo saluto tu fossi un Paolo diverso, unico, e solo nelle generalità condivisibile, inutile citare troppo Pirandello in questo, che perdo tempo a fare, è tutto ovvio, chiaro anche troppo classico. Ti scrivo sapendo che non puoi leggermi ma sperando che chi ti è stato vicino e chi no, chi ti ha conosciuto e chi no possa leggere queste mie righe a te rivolte come saluto e come primo riassunto della mia esperienza, di quella piccola parte di percorso di vita condiviso insieme, sono tantissime le persone con cui camminiamo nella vita, alcuni li sentiamo di più, altri di meno, molti li dimentichiamo, altri ancora li ricordiamo con dispiacere o con disperazione, oppure con devozione ed affetto, io voglio conservare le battaglie del nostro percorso, le battaglie che intellettualmente abbiamo combattuto anche solo commentando quello che il mondo faceva ed a noi non stava bene, le battaglie in cui ci siamo confrontati quando non condividevamo le medesime opinioni sullo stesso film. Sono quelle battaglie che mi sono più care alla fine, quei momenti in cui si buttava fuori il sentito ed il pensato che diventavano il vissuto indispensabile per conoscersi e capirsi di più. Sono le battaglie con cui ci siamo sentiti e conosciuti di più, avvicinati allontanandoci perchè così funzionano le comunicazioni più intense e talvolta conflittuali, mi manca e mi mancherà sempre non avere potuto parlare di Obama, mi manca non poter vedere con te il film di Stone sulla vita del secondo Presidente Bush "W", che sono certo andrà violentemente in un senso e mi mancherà quella lucida ostinazione con cui tu avresti potuto rilevarne quell’eccessivo schierarsi, quell’essere demagogici in cui uno come Stone dall’alto della sua sapienza cinematografica potrebbe cadere, mi mancherà la tua visione vissuta dell’America che era un terreno importante dei nostri confronti e quell’epoca che io visto attraverso il Cinema e che tu hai vissuto e filmato con macchine da presa amatoriali e con gli occhi e la mente di una persona che è stata nella storia in modo vero ed attivo.Non le potrò ritrovare ma tenterò di cercarle sempre dentro di me, non penso che smetterò facilmente di chiedermi di fronte ad un certo film come avresti reagito e cosa avresti detto, forse non riuscirò ad indovinarlo ma me lo domanderò sempre, perchè portandoti nella materia che più mi appartiene e più mi coinvolge ti porterò sempre con me, nel modo migliore ed in quello che penso anche tu avresti preferito. Ciao Paolo, ci vedremo al Cinema, quando vedendo e sentendo un opera cercherò di trovarti per sentirti presente.
Qui di seguito trovate raccolte tutte le recensioni che Paolo scrisse per il blog, alcune fatte a quattro mani con Antonella, altre autonome, tutte piccoli frammenti del grande puzzle che compone una persona. Non basterà per conoscerlo, non servirà per capirlo ma in ogni piccolo sforzo di ciascuno di noi c’è un contenuto che viene donato agli altri ed è per onorare quel contenuto che le propongo in questo omaggio. Le recensioni non sono in ordine cronologico perchè ho voluto evidenziare una particolare attenzione rivolta al difficile tema della guerra in medioriente. Buona lettura.
Daniele.
Domenica, 02 settembre 2007
Note da VENEZIA
di Antonella Mancini e Paolo Strigini
" Redacted " di Brian De Palma (2007)
Pareri discordi in sala, dopo la visione di questo attesissimo film. Molti applausi, che non abbiamo capito, molti (fra cui noi) sono restati lì come sassi. Personalmente ne siamo usciti devastati, con un deserto dentro. Oggettivamente, il film non è gran che: lento, senza trama, immagini fisse, dialoghi cretini, attori di brutto aspetto e mediamente antipatici, per giunta un finto documentario e, come se non bastasse, un soggetto trattato già in mille salse – figurarsi la guerra! – ma che pizza! Ebbene, è proprio questo che decreta la grandezza del film e il coraggio di De Palma nell’essersi avventurato in una simile impresa di denuncia: raccontare la banalità della guerra. E’ questa banalità che prende dentro e lascia un groppo del quale è difficile liberarsi. E’ questo mostrare, pezzo per pezzo, come attraverso le cose più stupide, le più sceme, si costruiscano degli assassini che non sanno nemmeno di esserlo. O meglio, fanno maldestramente finta di non saperlo, recitando la parte del soldato che fa solo il suo dovere, fra mille difficoltà e in mezzo a una banda di nemici assetati di sangue. Però all’inizio vediamo questi futuri assassini sudare a un posto di blocco dove ci vogliono cinque minuti (in tempo reale) per far passare una macchina, scrutando in giro per vedere se qualcuno (giustamente) vuol farti saltare in aria, (e a volte ci riesce) o imprecando a chi ti ha mandato in questo posto di merda.
Una cronaca ricostruita con pazienza e rigore, come il delitto dei due balordi raccontato da Truman Capote in A sangue freddo. Un film tragico, dunque, e pessimista, che va al cuore della natura umana, a scanso del tono dimesso per il quale molti hanno sentito il dovere di criticarlo. Ci sorge il dubbio che queste critiche nascondano una presa di distanza difensiva, una sorta di paura di fronte all’abisso della nostra miseria, a quanto siamo pronti a diventare creature ignobili non appena saltano gli schemi rassicuranti entro cui siamo abituati a incanalare le nostre vite. Meccanismi psicologici analoghi a quelli scattati al tempo dei campi di sterminio nazisti, dove era la "normalità" a prevalere, e non l’anomalia. O forse sono così solo gli Americani ?
sabato, 06 settembre 2008
Note da VENEZIA
di Antonella Mancini e Paolo Strigini
" The hurt locker " di Kathryn Bigelow (2008)
Iraq 2008. Un film sulla guerra, non un film di guerra né contro la guerra. Ritmo, suspence, due ore abbondanti che volano per mostrarci la guerra attraverso un unico aspetto: il lavoro dell’artificiere sul campo di battaglia. Questa scelta consente di mozzare il fiato quasi ininterrottamente, con un ritmo frenetico: ce la farà Jeremy a rintracciare e tagliare il filo giusto, a riuscirci prima che un timer nascosto o un cecchino in agguato faccia saltare tutti in aria, a cominciare da lui? E’ sempre il sergente Jeremy a rischiare la pelle più di tutti, invano gli altri – specialmente il nero – cercano di trattenerlo, accusandolo di rischiare la pelle di tutta la squadra per soddisfare la sua adrenalina. Ma, come ci viene spiegato nei titoli di testa, "la guerra è una droga", e quindi solo il rischio estremo può soddisfare i drogati. Si insultano fra loro, questi soldati e arrivano anche a picchiarsi, ma in fondo ci vengono presentati tutti come bravi ragazzi; forse sembrano anche un po’ troppo gentili con gli Irakeni (un colonnello medico, bravo a trattare l’isterismo e l’angoscia dei soldati, salterà in aria proprio per un eccesso ridicolo di cortesia imparata a Yale). Viene da pensare che la regista sia, se non "embedded" come gli unici giornalisti ammessi a raccontare la guerra guerreggiata degli USA, certo – e comprensibilmente – vicina col cuore a questi ragazzi che aspettano la fine della ferma di un anno nell’inferno. Non si direbbe, ma in fondo la regista è una donna, ed è un’americana democratica. E’ vero che in Redacted (mostrato a Venezia l’anno scorso e circolato poco o nulla nelle sale) Brian de Palma non soffriva di questi ritegni. Ma lui ricostruiva una specie di documentario-intervista su un crimine di guerra, come quest’anno l’israeliano Z32. Forse per fare un film contro la guerra e perché la gente lo veda oggi occorre scegliere un episodio che sia esplicitamente criminale ?
venerdì, 05 settembre 2008
Note da VENEZIA
di Paolo Strigini
" Z32 " di Avi Mograbi (2008)
Insolito. che un film intimista parli di un crimine di guerra. Si tratta dell’uccisione di due poliziotti palestinesi da parte di un ragazzo israeliano in un’azione che si chiama ed è "vendetta". Vendetta per la morte di sei genieri israeliani uccisi in un agguato della seconda intifada. Il ragazzo è stato arruolato in un’unità di elite, sballottato per mesi in viaggi lunghissimi durante i quali i soldati dormivano, per svegliarsi in posti sconosciuti. L’addestramento consisteva soprattutto in un martellante ammonimento che anche un bambino di cinque anni può essere un terrorista (e, come paradossale conferma, i soldati vedranno quattro ragazzini arabi che saltano in aria mentre vanno a scuola).
Ma il film si snoda col ritmo e lo stile di un un rito ebraico, monotono e ripetitivo, sia nei brani di interviste che nelle canzoni salmodianti che che li commentano come un coro greco. Si può fare un film, o una canzone, o un’opera d’arte su un crimine? Si può domandare comprensione o addirittura perdono (magari invocando l’addestramento e la propaganda o gli ordini superiori)? I protagonisti dell’intervista –il soldato che ha accettato di testimoniare e di rispondere alle domande della sua ragazza che vuole sapere e scava e interroga, anche con gli sguardi e i silenzi- non hanno risposte. Quello che più angoscia entrambi è che quando finalmente entrano in azione, i soldati sono contenti (e addirittura provano piacere) di sparare e di uccidere. La ragazza sottolinea il fatto che il soldato prima chiedeva comprensione, ora chiede perdono, il che implica l’ammissione di aver commesso un crimine. Ma il perdono non si può dare, perché né la confessione né il pentimento possono cancellare una colpa: gli ebrei non sono cattolici – fra loro non usa, come fra noi, diventare "pentiti" strumentalmente. Non è facile essere ebrei israeliani, e nemmeno fare un film su un conflitto come quello fra loro e i palestinesi, che non si vedono mai. Il conflitto di cui si parla qui è quello dentro un assassino e a chi gli sta accanto e gli vuol bene.
martedì, 02 settembre 2008
Note da VENEZIA
di Antonella Mancini e Paolo Strigini
" Shirin " di Abbas Kiarostami (2008)
L’ultima fatica di Kiarostami è, a dirla con un’espressione sintetica, una palla pazzesca. E già al pensarlo uno si sente colpevole e traditore. Figuriamoci a scriverlo. "Palla" resta, però ambigua e contraddittoria, perché da un lato è frutto di un colpo di vero genio e, dall’altro, l’esito di una eccessiva – e fastidiosa – considerazione di se stesso (eufemismo che sta per narcisismo). Il tutto poi è complicato dal "messaggio", politicamente più che corretto: elogio dei valori democratici e, soprattutto, elogio delle donne (corre l’obbligo ricordare che siamo in area mussulmana e che il regista, col suo nutrito clan, ha dovuto abbandonare l’Iran da qualche anno).
Qual’è la trovata geniale? Il film è costituito solo ed esclusivamente dallo scorrere di una galleria di volti di donne che, in silenzio, guardano un’opera teatrale (ma potrebbe anche essere un film). La camera si sposta dall’uno all’altro volto – più di un centinaio – indulgendo sui minimi mutamenti di espressione delle spettatrici. Fuori campo, di tanto in tanto echeggia la voce narrante della vicenda rappresentata: un poema persiano del XII secolo, dove l’eroina è tale principessa Shirin (che dà il nome al film). La storia, di cui non si vede mai, proprio mai, alcunché, salvo illustrazioni d’epoca in apertura, è talmente appassionante (quanto intricata e intrigante) che finisce per catturare anche lo spettatore (un po’scettico) delle spettatrici di Kiarostami. Una sotto-idea altrettanto geniale è che le 114 "attrici" mute del film di Kiarostami non sono lì a caso ma sono state scelte tra le migliori attrici del cinema e teatro iraniani (unica presenza spuria, anch’essa col velo come tutte, è Juliette Binoche). E questo, oltre che un omaggio galante alla femminilità, è anche un coraggioso riconoscimento del loro valore di donne-artiste, se non una sfida all’establishment iraniano. Un velo che non è certo un chador, ma da cui spuntano ciocche di capelli e addirittura – lo spettatore maschio iraniano potrebbe restare senza fiato – può scivolare via, e comunque sottolinea la bellezza e l’intensa espressività dei volti. Quasi sempre singoli, e mai più giù del collo fasciato dal velo: uno schiaffo al nostro cinema scollacciato e alla nostra vantata libertà sessuale?
Ma allora, dove la faccenda non funziona? Nella lunghezza – 92 minuti – per tutta l’operazione. Troppo per ritratti a camera fissa pur con un romantico commento musicale ora di sottofondo ora in sordina a una voce narrante intervallata da interminabili silenzi. Troppo anche tenuto conto della bravura delle attrici, che con l’intensità e la varietà (più o meno belle, più o meno giovani, più o meno sentimentali) delle loro reazioni personali, colorano il racconto che si svolge davanti ai loro occhi. Si può restare affascinati e financo rapiti da una trovata simile per… un massimo di 30 minuti, ma poi, quando i volti ritornano, quando il gioco continua, non se ne può più dalla noia e ci si chiede, con un po’ di senso di colpa alimentato dalla crescente irritazione "ma chi si crede di essere questo qui da infliggerci tale penitenza?" Si vorrebbe anche capire un po’ meglio la storia romanticamente tragica che affascina e seduce, fa piangere e – raramente – sorridere le romantiche signore velate del film.
E può venire in mente anche una mostra fotografica di Kiarostami, abbinata a un concorso cui parteciparono nel 2007 oltre mille foto più o meno professionali provenienti dall’Iran. Il regista mostrava un centinaio di vedute bianco e nero di strade serpeggianti fra prati, boschi, monti, paesaggi vuoti sotto il sole o la neve, dove ogni albero, sterpo, filo d’erba aveva una presenza viva e concreta: raramente un viandante lontanissimo o un mulo o un bambino accompagnato facevano capire che la terra è ancora abitata. Ebbene, nella sua presentazione Kiarostami affermava testualmente di preferire la fotografia al cinema, perché più libera, la prima, dai vincoli imposti al secondo di attenersi a una storia, permettendo così ad autore e spettatore di sognare, soffermarsi su un dettaglio o andarsene via, ritornare o cambiare aria. Ma allora, Kiarostami, perché ci costringi a stare lì per 92 minuti a seguire la tua non-storia?
venerdì, 15 giugno 2007
" La Città Proibita " di Zhang Yimou
Recensione di Paolo Strigini
Un kolossal, anche se forse non sarà costato cifre stratosferiche grazie agli effetti speciali. Kolossal nelle intenzioni e nei risultati, con musiche alla Hollywood, con masse rutilanti d’oro e d’argento, killers neri cattivissimi armati di falce, sfondi rossi di tutte le sfumature dalla porpora di Alessandro, degl’imperatori e dei papi romani al sangue che sgorga e cola in pozze (anche se teste e membra mozzate s’intuiscono, ma non si vedono mai), alla violenza delle passioni e dei dialoghi più o meno shakespeariani.
Fa anche paura pensare che i Cinesi (come fanno a esser così numerosi dopo tanti massacri?) si rappresentino come formiche guerriere pronte solo a lanciare urrah, uccidere e farsi scannare: i guerrieri di terracotta sepolti a Sian sembra che mostrino molta più individualità. Poi uno pensa anche a quante radici (le patate non c’erano) avranno dovuto mangiare i milioni di contadini a cui toccava mantenere, armare e decorare tutti i bellimbusti della corte imperiale e i loro eserciti.
I quali, certo, non si divertono (anche i ricchi piangono). Anzi, soffrono tremende pene d’amori impossibili o traditi e di ambizioni insaziabili del potere. Prima di tutti l’imperatore, l’unico che (scopriamo) sapeva tutto, dal tradimento della bella moglie alle complicate parentele della sua corte, e rimane vivo (probabilmente lui solo) alla fine, su tappeti di cadaveri e di crisantemi. Poi c’è l’imperatrice, l’affascinante e misteriosa Gong Li dai sorrisi avari e preziosi, che sorseggia la sua cicuta anche dopo esserne stata avvertita, l’amletico principe, figlio dell’"altra", che lei seduce e tenterà invano di uccidersi, mentre ci riuscirà l’altro principe, figlio di lei, dopo aver guidato un esercito sterminato all’ecatombe. Eh sì, perché la Città proibita è difesa da mura semoventi, meglio del G8 e d’Israele. Eccetera.
Certo non mancano scene indimenticabili, ad esempio quando i killers neri con le loro falci si calano come teleferiche nel canyon dove stanno fuggendo i nostri cowboy. O quando Gong Li attraversa come una tigre una sfilza di saloni rossi per scoprire la tresca fra il suo figliastro-amante e la di lui sorella (ma loro ancora non lo sanno) Chan, la quale si nasconde in un armadio ma, sotto i nostri occhi e quelli dell’imperatrice, ritira lentamente la sua lunga cintura viola che era rimasta fuori.. O anche il disfarsi delle maschere regali e insieme lo sciogliersi dei lunghi capelli neri della coppia imperiale alla fine della tragedia.
Ma non mi si venga a dire che questo è cinema (di quello che resta oltre una serata). Né che Zhang Yimou aveva qualcosa da dire. Né che noi non possiamo capirlo perché non siamo cinesi. Forse voleva dimostrare che anche loro possono fare Alessandro Magno o i 300 di Leonida come a Hollywood? C’è riuscito. O, più ambiziosamente, voleva dipingerci un imperatore cinese (forse il primo che unificò la Cina dopo l’anarchia dei "Regni combattenti"?) come il suo omologo Ivan il Terribile di Eisenstein? Magari con un messaggio segreto, come là contro Stalin, qui contro il regime di Pechino. Ma per rispondere a questa domanda, a parte che ci sia o no riuscito, ebbene allora bisognerebbe proprio essere cinesi. E di quelli nonconformisti.
sabato, 06 settembre 2008
Note da VENEZIA
di Antonella Mancini e Paolo Strigini
" BirdWatchers – La terra degli uomini rossi " di Marco Bechis (2008)
Un film che sta facendo parlare molto di sé: presentato e accolto come il più "impegnato" della Mostra, si è da subito posizionato come un "bel" film senza incontrare grossi ostacoli, in una rassegna, questa 65° di Venezia, che ad oggi può tranquillamente qualificarsi come la più brutta e sgangherata degli ultimi anni. Il film di Bechis è un film onesto, con un inizio, uno svolgimento e un finale "aperto", il che è già molto, dato il tema; ma è anche un film privo di slanci registici e di sorprese, diremmo se non noioso, almeno piatto e prevedibile. E magari non privo di emozioni, ma incapace di suscitarne di nuove e profonde.
Poi c’è il contenuto, decisamente "politico", che rimanda alle questioni della mondializzazione e che viene esemplificato nel delicato rapporto tra uomini bianchi e "uomini rossi", tra fazenderos e indios. Bechis è bravo nel non prendere le parti degli uni o degli altri, presentandoci una situazione densa di contraddizioni, rapporti ambivalenti, intrecci difficili da sbrogliare, ma mostra i limiti di una lettura che può risultare semplicistica, talvolta acritica, a tratti nascostamente faziosa. Invece ci fanno sorridere gli indios di Bechis quando si riprendono la "loro" terra accampandosi lungo una strada asfaltata di grande traffico, ignorando la foresta da cui provengono e che è appena 200 metri più in là, o quando, ormai divenuti incapaci di cacciare, l’unica bestia che riescono a prendere è una vacca sfuggita alla stalla del fazendero. La foresta si è ridotta a fare da sfondo ai travestimenti da selvaggi per la gioia dei turisti, Birdwatchers appunto. E fa pensare il fatto che i giovanissimi suicidi vengano interrati coi loro simboli demoniaci di corruzione: il telefonino, la scarpa da ginnastica. Contro tutta questa corruzione tuonano lo sciamano e il capo tribù. Invano. Ora, non si tratta di decidere (dal nostro punto di vista di bianchi, più o meno afflitti dai sensi di colpa) chi sono i buoni o i cattivi. Quello che vorremmo capire è se è possibile una conciliazione o almeno una coesistenza fra le due culture, o se ognuna delle due è condannata al suo proprio destino autodistruttivo. Insomma, ci sarebbe piaciuto che Bechis, se non la soluzione, ci avesse presentato esplicitamente il problema.