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“I, Daniel Blake” di Ken Loach, Regno Unito (Cannes 2016)

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Daniel Blake, 59 anni, vedovo, operaio instancabile, deve per la prima volta nella sua vita chiedere aiuto all’assistenza sociale dopo un collasso cardiaco che lo costringe all’inattività per alcuni mesi. Purtroppo la burocrazia informatica del nuovo welfare inglese non assegna a Daniel abbastanza punti di disabilità per avere il sussidio, contemporaneamente i medici proibiscono a Daniel di lavorare. Improvvisamente l’uomo si ritrova bloccato in un gap informatico che lo rende un’indolente scansafatiche agli occhi degli assistenti sociali ed un grave cardiopatico disabile al lavoro agli occhi della sanità. Daniel Blake, analfabeta informatico ma instancabile operaio, è imprigionato da un sistema che non contempla più la relazione umana diretta fra gli impiegati ed i cittadini obbligando la gente anziana e meno preparata ad una via crucis tecnologica e burocratica quasi insormontabile. Ken Loach punta il dito sull’informatizzazione del sistema sanitario ed assistenziale inglese, mostra la trasformazione dei rapporti fra la burocrazia ed il cittadino e la perdita progressiva dell’umanità all’interno dei sistemi di assistenza parzialmente o totalmente privatizzati e meccanicizzati, incapaci di avere ancora relazioni umane dirette o di considerare la semplice variante del singolo individuo. Loach ci costringe a guardare i difetti della nostra società sempre più asettica e statistica e sempre meno attenta a percepire il dolore ed il bisogno d’aiuto del cittadino. Un film perfetto nella messa in scena, recitato meravigliosamente e costruito senza sbavature emotive o difetti retorici, un lungometraggio che va dritto al suo fine per raggiungere il cuore dello spettatore. Un meraviglioso Ken Loach pienamente grintoso ed al passo con i tempi.

Daniele Clementi

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VENEZIA 2007: " It’s a Free World… " di Ken Loach

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2007
(c) Biennale di Venezia
Note da VENEZIA
di Antonella Mancini e Paolo Strigini

” It’s a Free World… ” di Ken Loach

Diversissimo e specularmente opposto a Rohmer il film di Loach. Il Caso, che quando ci si mette non manca di una sua coerenza diabolica, ha piazzato una delle tre proiezioni* di questi due film mettendoli in fila l’uno all’altro: prima Loach, a seguire Rohmer (il che – non lo nego – può aver esasperato l’insofferenza verso quest’ultimo). Veniamo brevemente al film. It’s a Free World…è il contraltare, in tempo di pace, di quanto Redacted (cfr. Post del 31 Agosto) rappresenta in tempo di guerra: uno sguardo spietato su ciò che è diventato, nel nostro Occidente globalizzato, l’atteggiamento verso la vita, la morte, lo sfruttamento, l’abuso. Anche in Loach, come già in De Palma, il Male è qualcosa di ineluttabilmente banale, di cui sono preda vittime e carnefici. E’ il “sistema”, come lo si chiamava una volta, a generare mostri, senza che vi sia in atto un’intenzione conscia e specifica da parte di chi lo fa. Così succede alla protagonista, una giovane e simpatica ragazza-madre, sfigata come poche ma piena di idee e di iniziative. Dopo essere stata licenziata per essersi ribellata ai toccamenti di un suo viscido capoufficio, lei si inventa, presa dalla disperazione, un lavoro sporco, sempre con la ferma (?) convinzione di mettersi in regola. E mette su insieme a un’amica nera inizialmente riluttante, poi bravissima a contare le migliaia di sterline trattenute sulle magre paghe dei lavoratori, un’agenzia di collocamento dove ne passa e fa passare di tutti i colori. Formalmente “carnefice”, finisce però schiava dell’ingranaggio da lei stessa creato, abdicando poco a poco ai principi ereditati dalla sua famiglia operaia. Persino la sua socia a un certo punto non ce la farà più, ma lei mette un bavaglio alla sua sensibilità. Per sopravvivere. Ma non ha altre scelte e Loach è molto bravo a mostrarcelo e a mostrarci il processo di trasformazione interiore della protagonista così come quello all’incontrario delle sue vittime; che infatti le si ribelleranno. Così il cerchio si chiude, perché anche le vittime diventano carnefici. Nell’unico modo possibile per degli emarginati e dei clandestini: facendo i banditi. Film come questi, esteticamente, non apportano contributi di rilievo al linguaggio del cinema e, per certi versi, possono addirittura apparire sciatti e tirati un po’ via. Ma film come questi hanno l’inestimabile pregio di parlare direttamente al cuore di chi si prende la briga di andarli a vedere e di fondere insieme, tra contenuto e immagine, quello che cento dotti saggi di sociologia non sarebbero mai in grado di comunicare. Il racconto minuzioso dei diversi modi attraverso cui si diventa criminali prende alla gola lo spettatore come quello di De Palma. Ma quello ha la lentezza monotona dell’epica, questo il distacco veloce del naturalismo, come in La folla di King Vidor (1928), rivisitato dopo settant’anni.
 
*Ogni opera a Venezia viene proposta circa tre volte, riservandola di volta in volta a un tipo di pubblico specifico.

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