Archivio mensile:novembre 2013

“LFO” di Antonio Tublén, Svezia/Danimarca (Torino 2013)

L’acronimo LFO significa “Low Frequency Oscillator” ovvero “Oscillatore a Bassa Frequenza”, nella fantasia della storia del film questo oscillatore riesce a generare un’onda sonora in grado portare immediatamente un’essere umano in stato ipnotico e conseguentemente di manipolarlo a qualsiasi scopo, dal più nobile al più meschino. Il protagonista della storia, omicida volontario ma mai scoperto di sua moglie ed involontario di suo figlio, fra un’allucinazione e l’altra riesce a scoprire l’onda che consente la manipolazione mentale ed usarla a suo piacimento fino ad essere pubblicamente riconosciuto dall’intera popolazione umana come Dio. Scritta così può sembrare una cosa un pò stupida, ma in realtà il regista  Antonio Tublén riesce a rendere credibile l’incredibile fino al punto di regalare al pubblico un film di altissimo livello drammatico con tratti di humor crudele molto ben calibrati ed una serie di trovate geniali per dare spessore e conflitto ai suoi personaggi. La psicologia di ogni singolo personaggio della storia sono resi in modo esemplare, la messa in scena è gelida, caustica e trascinante e la scelta di ambientare tutto il film in poche stanze di una casa si rivela meravigliosa per la resa dell’atmosfera oltre che per evidenti ragioni di spese. Un’ottimo film dall’idea originale e coinvolgente che diverte ed apre indubbiamente la possibilità di un dibattito interessante sulla manipolazione di massa, il regista è una vera promessa per il cinema europeo del futuro.

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“The Conspiracy” di Christopher MacBride, Canada 2012 (Torino 2013)

Il regista canadaese Christopher MacBride gioca meravigliosamente fra teorie della cospirazione, paranoia e cinema di genere miscelando con talento e sapienza tutte queste cose per un “mockumentary” (falso documentario) che riesce a tenere lo spettatore sotto tensione fino all’ultimo secondo. In un’epoca in cui il potere dei politici, delle banche e della multinazionali sembra essere giunto oltre la legalità che li dovrebbe normare, ecco uscire un film perfetto per alimentare le paure del nuovo millennio. C’è una sostanziale dolcezza nel modo in cui MacBride parla dei teorici della cospirazione, nel modo in cui nella prima parte del film li documenta rendendoli profondamente umani e credibili e questo consente, nella seconda parte, di spingere l’acceleratore verso il film giallo con momenti di altissima tensione degni di un buon horror. La storia di una grande cospirazione segreta in grado di spiegare essenzialmente tutti gli eventi traumatici degli ultimi due secoli travolge lo spettatore fino all’epilogo finale dove il gusto cinematografico dell’operazione traspare nelle citazioni a lungometraggi memorabili come “Eyes wide shut” di Stanley Kubrick e, naturalmente, l’immortale truffa mediatica di Orson Welles per la “Guerra dei mondi”.

Daniele Clementi

“Green inferno” di Eli Roth (Roma 2013)

Dopo anni di assenza dalla regia cinematografica Eli Roth, seguendo la strada tracciata da Quentin Tarantino, ritorna al cinema horror ispirandosi ai vecchi film di cannibali italiani, inevitabilmente primo fra tutti quello di Ruggero Deodato “Cannibal Holocaust” a cui è dedicato il film. Ma Eli Roth non è Quentin tarantino e questo tipo di operazione la fa in modo nettamente diverso e meno giocoso, ne emerge un film che copia all’esasperazione i contenuti dei classici italiani senza però ripeterne l’ingenuità e la genuinità originale.
Roth dimostra di aver studiato attentamente questo sottogenere, offre allo spettatore colto una ricca filmografia di opere nei titoli di coda e quando compare la dedica a Deodato non manca di farci sentire in inglese la banda sonora del film cult del regista italiano, nello specifico la scena di sevizie al maialino praticate (per davvero) da un giovanissimo Luca Barbareschi. La cosa però che lascia più perplessi è la scelta di inserire una strana sottotrama politica, perfino ideologica in un film che poteva serenamente rimanere in superfice senza cercare ambiziose provocazioni. La storia è quella di una studentessa universitaria ancora vergine e davvero molto ingenua che viene coinvolta da un gruppo di attivisti politici (simili ai ragazzi di “Anonymus” oppure “Occupy Wall Street”) a lasciare gli USA per la volta del Perù con la missione di ostacolare il disboscamento praticato da una potente multinazionale. Con grande sorpresa della protagonista gli attivisti, stupidi e cattivi, si riveleranno lo strumento consapevole di una multinazionale concorrente e lei scoprirà di essere semplicemente un’esca per i media essendo nipote di un diplomatico dell’ONU. Gli indigeni cannibali in compenso sono stupidi, brutti e spietati e si divertono a fare cose atroci senza uno specifico significato logico. Roth si diverte a giocare con temi diffusi dai democratici americani trasformandoli e ridicolizzandoli, portandoli a strumento di compiaciuto sadomasochismo come la strana scena del tentativo di infibulazione girata fra l’erotico, il comico ed il raccapricciante. Un film che lascia perplessi. In merito alla violenza sugli animali (famoso oggetto di discussioni più che lecite ai tempi degli originali italiani) Roth mostra con una certa ostentazione animali tranquilli e ben pasciuti che riposano placidi nel villaggio dei cannibali, la sola violenza, portata all’estremo, la riserva agli esseri umani preferibilmente di sinistra.

Daniele Clementi

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Il nuovo Consiglio Direttivo della UICC (2013 – 2015)

Nel corso dell’Assemblea Generale Ordinaria della Uicc, tenutasi a Roma, presso la propria sede legale, il 10 novembre 2013, sono stati rinnovati gli organi direttivi. Il Consiglio Direttivo della Uicc, per il biennio 2013-2015, risulta così composto:

Presidente: Pia Soncini

Segretario Nazionale: Daniele Clementi

Consiglieri:
Andrea Ciucci
Sebastiano Di Guardo
Denis Fontanari
Daniele Vidussi

Il Collegio dei Sindaci Probiviri della Uicc, per il biennio 2013-2015, risulta così composto:
Domenico Farina
Lamberto Stefanini
Luigi Starace
Il Collegio dei Sindaci ha confermato Presidente Lamberto Stefanini.

“The mole song” di Miike Takashi (Roma 2013)

Questo è forse uno dei più attesi film del 2014 in Giappone, previsto per il 14 febbraio e presentato in anteprima al Festival di Roma del 2013, il nuovo imponente e divertentissimo lavoro di Miike Takashi si basa su un famosissimo manga giapponese e ne rispetta l’eccentricità e la carica demenziale, un film imprevedibile (se non conoscete il fumetto) pieno di inattesi colpi di scena e parentesi comiche irresistibili, un gioco costante fra cinema commerciale, animazione, fumetto e commedia tradizionale giapponese che fa dell’eccesso e la trasgressione la sua caratteristica principale con una grande disponibilità di mezzi tecnici ed un cast davvero perfetto sul piano della resa recitativa. Una vera delizia per gli amanti dell’eccentrico e del cinema giapponese sempre colorato, violento ma giocoso di Miike Takashi. La storia (impossibile e demenziale) di un giovane poliziotto giapponese sotto copertura per fermare una delle più potenti famiglie yakuza del giappone si dipana, fra personaggi mentalmente instabili e situazioni irresistibilmente idiote, fino ad uno scontro finale degno dei più classici film western americani. Le situazioni filmate con grande fantasia dal regista costringono lo spettatore a non distogliere mai gli occhi da questa follia per ben due ore e dieci minuti e fanno di questo film fuori dagli schemi una preziosa occasione per divertirsi in un modo diverso ed originale rispetto ai canoni tradizionali del cinema.

“A Dangerous Method” di David Cronenberg

Recensione di Antonella Mancini pubblicata per la prima volta il 28 settembre 2011 su “Avanzi di popolo”

Ultimo in ordine di tempo della fortunata serie “ficchiamo il naso nella stanza dei genitori”, con questo film Cronenberg vorrebbe affrontare la rottura portata dalla psicoanalisi nel pensiero moderno. La vicenda narrata è quella di uno dei molti personaggi minori che pur tuttavia hanno contribuito a fare la storia della psicoanalisi: Sabina Spielrein, di cui sino agli anni ’80 si sapeva poco o nulla. La Spielrein approda giovanissima e in piena crisi psicotica alla clinica Burghölzli di Zurigo, dove lavorava Jung, e ne diviene paziente. In seguito si laureerà in medicina, per divenire a sua volta psicoanalista, specializzata in bambini. Tornata in Russia fonderà con Vera Schmitt il famoso Asilo Psiconalitico di Mosca, per finire uccisa dai nazisti nel 1942.

Il film si incentra quasi esclusivamente sulla relazione sentimentale che, stando ai diari della Spielrein, la giovane donna avrebbe intrattenuto con Jung, indulgendo sugli aspetti perversi della di lei personalità e sulla compiacenza e i dubbi di Jung. E siccome quelli sono gli anni della drammatica rottura con Freud, ecco che al duo si unisce Freud in persona, con battutacce ora caustiche ora gigionesche ora da maestro di Real Politik. Di contorno, un giovane medico, matto come un cavallo e fissato col sesso, tale Otto Gross, su quale incautamente Freud aveva riposto le sue speranze di “successione”; poi, altrettanto incautamente, trasferite su Jung. Fra sesso, corna e sculacciate (con una protagonista un po’ sopra le righe) non mancano disquisizioni tecnicistiche, incomprensibili ai più, su sessualità, pulsione di morte e quant’altro: concetti tutti che la moderna psicoanalisi o si è lasciata alle spalle o ha rielaborato in forme meno rozze di quelle proposte dal film, che fra i vari difetti ha anche quello di presentarli astoricamente, per cui si è indotti a ritenere che siano ancora attuali. A questi si sommano considerazioni etiche e deontologiche che nel contesto generale acquistano un irresistibile sapore comico. Ne viene fuori una procedura clinica – il Dangerous Method – prossima a una parodia da operetta, saltata fuori – modello coniglio e cilindro – dai giochi di prestigio mentali di un gruppetto di matti e meno matti, col più furbetto (Freud) che li fa rigar dritti tutti. E questo a voler essere buoni e indulgenti. Se invece seguiamo alla lettera la storia, magari un po’ ottusamente, e ci domandiamo una volta per tutte cos’è questo Dangerous Method, la risposta, stando al film, viene da sé: è una roba per cui per prima cosa si va in psicoterapia, poi, supponendo che faccia bene, per gratitudine o altro, si finisce a letto col/con la terapeuta, a questo punto si hanno le carte in regola per divenire a propria volta terapeuti e, infine, per chiudere il cerchio, si può dare il caso che il primo terapeuta chieda all’ex paziente, ormai terapeuta anche lui/lei, di diventare suo/sua paziente Nel film la variante è data dal fatto che è la moglie dell’ex terapeuta – cioè di Jung – a chiedere all’ex paziente – cioè alla Spielrein – di prendere in trattamento il marito. Sic. In effetti è difficile, anche per il profano, non convenire che di metodo pericoloso (Dangerous) trattasi. Di certo Cronenberg non è questo che si proponeva, ma questo è quanto se ne ricava. Probabilmente nei suoi intenti c’era l’aspirazione a un racconto “oggettivo” dei fatti, a mostrarli come sono (o sarebbero) stati cosicchè, stante un perfetto calligrafismo cinematografico, viene a mancare lo spazio per allusioni, rimandi, non detti, zone d’ombra: la realtà inizia e finisce con le parole dei protagonisti che la descrivono. Peccato che il tema non si presti e che il risultato sia quello di far risaltare gli elementi pettegoli e obsoleti a scapito delle motivazioni e dei tormenti reali che li hanno accompagnati. In sintesi: la superficialità la fa da padrona. Questo film di Cronenberg, anomalo anche rispetto al resto della sua produzione, appartiene a quel tipo di operazione culturale pronta a riversarsi come boomerang su quegli stessi eventi e personaggi che apparentemente vorrebbe mettere in luce. Trama e personaggi sono infatti presentati in modo tale da soddisfare quella forma di curiosità morbosa, peraltro travestita da “conoscenza della verità scientifica”, che si è andata sempre più sviluppando in una con la diffusione selvaggia di un presunto sapere psicologico. E psicoanalitico in particolare. Il tutto all’insegna di una semplificazione buona per il grande pubblico, talvolta con ambizioni persino didascaliche. E non ci sarebbe da stupirsi se – dio non voglia – il film finisse nelle proiezioni scolastiche e nei corsi di formazione per operatori sociali.

Antonella Mancini

Cannes 2009: “Nymph” di Pen-Ek Ratanaruang

Prima pubblicazione: 20 maggio 2009 su “Avanzi di popolo”.

Il tailandese Pen-Ek Ratanaruang con questo film originalissimo, si contraddistingue dai canoni a cui ci eravamo abituati del cinema tailandese, generi come la commedia demenziale o romantica o i gongfupian ad alto budget. Pen-Ek Ratanaruang racconta gli effetti devastanti interiori provocati da una ninfa invisibile dei boschi, un film religioso e paranormale con forti tinte esistenziali, che stupisce per il suo taglio così occidentale e la sua atipica (per la Tailandia) lentezza narrativa, fattori che lo rendono uno dei film più interessanti ed inaspettati della sezione “Un certain regard” del Festival di Cannes. Un film ricco di suggestioni visive,complesso nella sua natura sperimentale e nella sua

FEFF 2009 : Gli spettri di Singapore: “Rule #1” di Kelvin Tong (Singapore 2009)

Questo è un film poliziesco horror girato con soldi di Singapore ma mezzi e maestranze di Hong Kong, nella sostanza lo potremmo definire in tutto e per tutto un tradizionale Hong Kong Movie se non fosse per la sua caratteristica orrorifica che lo allontana dai canoni produttivi dell’ex colonia britannica. La storia comincia con una bella scena da classico poliziesco che racconta l’arresto brillante da parte di un poliziotto del turno di notte di un pericoloso serial killer che adora torturare e massacrare ragazze adolescenti. Le cose però non vanno tanto lisce ed il coraggioso poliziotto ne esce per miracolo con 4 colpi di pistola in corpo solo perché lo spettro dell’ultima vittima distrae il killer consentendo al nostro eroe di recuperare la pistola, improvvisamente si passa dai canoni tradizionali del poliziesco a quelli del genere horror.
La testardaggine con cui il poliziotto vuole mantenere nel suo rapporto il dettaglio dell’aiuto di uno spettro costringe il suo superiore e ridestinarlo ad una sezione speciale della polizia composta solo da tre agenti e sita all?interno di un vecchio deposito portuale in decadimento, si tratta di una sezione di interventi “generici”, ovvero quello che nessun altra sezione di polizia vuole fare.
In realtà si tratta della sezione dedicata alle indagini paranormali della polizia di Singapore, una sorta di “X-Files” in salsa di soia.
La regola numero uno a cui fa riferimento il titolo del film è “i fantasmi non esistono” ed è ciò che i nostri poliziotti “ghostbusters” devono far credere ai cittadini ogni volta che rispondono ad una loro chiamata con la differenza che in segreto dovranno affrontare il caso proprio considerando lo spettro come il criminale della situazione.
La storia si complica quando lo spettro del serial killer ucciso dal protagonista comincia a possedere giovani ragazze adolescenti per portarle al suicidio proseguendo invisibile ed indisturbato i suoi crimini.
Il resto della storia è rigorosamente top secret, anche perché regala allo spettatore molteplici colpi di scena ed un finale imprevedibile (lo è così tanto da lasciare anche lo spettatore interdetto).
Un ottimo horror movie dove la storia ed i personaggi contano più della suspense e degli effetti speciali, un film ben costruito e sviluppato, mai ridicolo e sempre pienamente credibile nella sua resa drammatica. Probabilmente uno degli horror movie più belli del 2009 in estremo oriente.

Daniele Clementi

FEFF 2009: Il Neorealismo di Ann Hui: “The way we are” di Ann Hui (Hong Kong 2008)

Pubblicato originariamente su un’altro sito (ora chiuso) il 30 aprile 2009.

Tin Shui Wai è una città satellite di Hong Kong, un piccolo mondo lontano dove vivono famiglie di estrazione mediobassa. Ann Hui, con decenni di esperienza sia nella TV che nel Cinema, e dopo esempi magistrali di cinema d’autore e melò come “Boat People” e “Summer Snow“, sceglie di raccontare con il video HD la vita ordinaria di una piccola famiglia di Tin Shui Wai. Il film si muove in marcata controtendenza con il cinema convenzionale di Hong Kong, che predilige grandi sequenze di azione nei momenti chiave del film. La storia si limita a documentare il quotidiano degli abitanti della città satellite, dai piccoli dilemmi della spesa, alla preparazione di un frutto durian fino alla difficoltà di una signora anziana di cambiare la lampadina della propria cucina, la capacità della regista consiste nel raccontare questo quotidiano con delicatezza e poesia regalando allo spettatore una storia semplice ed intensissima sulla vita comune di una famiglia disagiata di Hong Kong.

Unica componente retorica del film è un esaltazione dello spirito della collettività che ricorda leggermente i film di propaganda della Cina di una volta, ma in realtà questa ode all’amicizia e l’unione familiare si colloca magnificamente nella struttura narrativa del racconto. La regista Ann Hui ha già annunciato la produzione di un secondo film dedicato alla città satellite di Tin Shui Wai, questa volta l’attenzione sarà più rivolta alla cronaca nera e si intitolerà “Night and fog“.

Daniele Clementi

FEFF 2009: Remake al contrario: “Connected” di Benny Chan (Hong Kong 2008)

Recensione pubblicata su un’altro sito non più esistente il lontano 28 aprile 2009.

La tradizione vuole che sia l’occidente a prendere un film orientale e rifarlo ad Hollywood, ormai da alcuni anni è diventato un fenomeno perfino troppo diffuso. Martin Scorsese ha rifatto il film di Hong Kong “Infernal Affairs” con il titolo “The Departed“, Gore Verbinsky ha rifatto il film di Hideo Nakata “The Ring“, così come sono stati rifatti ,tanto per citarne alcuni, “The Eye“, “Ju-On” divenuto “The Grudge“, “Kairo” divenuto “Pulse“, “Dark Water” e recentemente pure il tailandese “Bangkok Dangerous” è stato rifatto con Nicolas Cage. Forse il primo caso storico è il film western di Sergio Leone “Per un pugno di dollari” remake non autorizzato del film giapponese “Yojimboo – La sfida del samurai” di Akira Kurosawa. Il fenomeno ora si sta invertendo. Il giapponese Miike Takashi ha rifatto “Django” di Sergio Corbucci e fra qualche giorno vi parlerò del remake sud coreano di “Il buono, il brutto e il cattivo“.

Il regista di Hong Kong Benny Chan è uno specialista del cinema d’azione nonchè un esperto di remake patinati, infatti sono ben noti i suoi rifacimenti di “Fist of fury – Dalla Cina con furore” e “Police Story“, la sua scelta è caduta questa volta sul film poliziesco americano “Cellular“, uscito alcuni anni fa senza lasciare un segno troppo visibile, la versione di Benny Chan però è superiore in termini di originalità ed innovazioni visive rispetto all’originale. La storia è quella di una donna sequestrata e rinchiusa da un gruppo di criminali che riesce a ricostruire alla meglio un telefono distrutto e chiama un numero a caso (non avendo la tastiera) per chiedere aiuto. Il malcapitato si ritroverà in corsa frenetica per tutta la città nel tentativo di impedire ai sequestratori di raggiungere la figlia ed il fratello della rapita per eliminarli e dovrà anche tentare di risolvere il caso. Solo un poliziotto addetto al traffico è disposto a credere alla storia assurda di quest’uomo che corre con il cellulare accesso per tutta la città (perché la sequestrata non sarà mai in grado di recuperare una seconda chiamata se cade quella in corso), un poliziesco con fortissime commistioni nel cinema d’azione che sorprende, diverte e scorre tanto velocemente quanto gradevolmente, zero spessore per i personaggio come per l’eventuale contenuto, il film è solo un giocattolo immersivo e coinvolgente, ma le azioni create per il film sono così estreme ed incredibili da renderlo un prodotto unico, gradevole ed avvincente. Le scene di inseguimento in automobile sono poi ai confini della realtà e ciò che le rende irresistibili è il lavoro letteralmente da circo che devono aver fatto stuntman e piloti per regalarci uno spettacolo adrenalinico dalla perfetta esecuzione. Un ottimo film vuoto (sul piano del contenuto) ma talmente avvincente sul piano dell’azione da essere una pietra preziosa di questa edizione del Far East Film Festival.

Daniele Clementi