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VENEZIA 2008: " Shirin " di Abbas Kiarostami (2008)

 

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

" Shirin " di Abbas Kiarostami (2008)

Recensione di Daniele Clementi

 

 

Girato in digitale, senza movimenti di camera ma solo con primi piani di spettatrici che guardano un film che noi non vedremo mai, il nuovo lungometraggio di Kiarostami somiglia più ad un progetto di videoarte che ad un film vero e proprio. Unica colonna sonora: i rumori di scena, i dialoghi e la musica di un film basato sul poema persiano del XII° secolo "Khosrow e Shirin" di Nezami Ganjevi. Pochissimi gli uomini mostrati nel film tutti in secondo piano e fra loro si riconosce facilmente il grande Homayoun Ershadi, protagonista dell’indimenticabile "Il sapore della ciliegia". Tutte le donne arabe mostrate non sono altro che una selezione tra le più grandi attrici iraniane viventi con l’apparizione straordinaria di Juliette Binoche.

Donne in primo piano dunque, che con il loro sguardo descrivono ciò che noi non possiamo vedere, molteplici le interpretazioni che si possono fare di questo video sperimentale gonfiato sino ad opera cinematografica resta il coraggio , fuori discussione, del regista e l’originalità dell’idea. Per i più curiosi si ricorda l’esistenza di un corto realizato dallo stesso regista in occasione dell’anniversario del Festival di Cannes, che era in sostanza la medesima idea del lungometraggio ma ridotta in 5 minuti. Una chicca per conoscitori ma nulla che certamente possa rimenere nella memoria dello spettatore fuori dai festival.

 

Clicca qui per leggere la recensione di Antonella Mancini sullo stesso film

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VENEZIA 2008: " Shirin " di Abbas Kiarostami (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

Note da VENEZIA
di Antonella Mancini e Paolo Strigini
 

" Shirin " di Abbas Kiarostami (2008)

 

 

L’ultima fatica di Kiarostami è, a dirla con un’espressione sintetica, una palla pazzesca. E già al pensarlo uno si sente colpevole e traditore. Figuriamoci a scriverlo. “Palla” resta, però ambigua e contraddittoria, perché da un lato è frutto di un colpo di vero genio e, dall’altro, l’esito di una eccessiva – e fastidiosa – considerazione di se stesso (eufemismo che sta per narcisismo). Il tutto poi è complicato dal “messaggio”, politicamente più che corretto: elogio dei valori democratici e, soprattutto, elogio delle donne (corre l’obbligo ricordare che siamo in area mussulmana e che il regista, col suo nutrito clan, ha dovuto abbandonare l’Iran da qualche anno).
Qual’è la trovata geniale? Il film è costituito solo ed esclusivamente dallo scorrere di una galleria di volti di donne che, in silenzio, guardano un’opera teatrale (ma potrebbe anche essere un film). La camera si sposta dall’uno all’altro volto – più di un centinaio – indulgendo sui minimi mutamenti di espressione delle spettatrici. Fuori campo, di tanto in tanto echeggia la voce narrante della vicenda rappresentata: un poema persiano del XII secolo, dove l’eroina è tale principessa Shirin (che dà il nome al film). La storia, di cui non si vede mai, proprio mai, alcunché, salvo illustrazioni d’epoca in apertura, è talmente appassionante (quanto intricata e intrigante) che finisce per catturare anche lo spettatore (un po’scettico) delle spettatrici di Kiarostami. Una sotto-idea altrettanto geniale è che le 114 “attrici” mute del film di Kiarostami non sono lì a caso ma sono state scelte tra le migliori attrici del cinema e teatro iraniani (unica presenza spuria, anch’essa col velo come tutte, è Juliette Binoche). E questo, oltre che un omaggio galante alla femminilità, è anche un coraggioso riconoscimento del loro valore di donne-artiste, se non una sfida all’establishment iraniano. Un velo che non è certo un chador, ma da cui spuntano ciocche di capelli e addirittura – lo spettatore maschio iraniano potrebbe restare senza fiato – può scivolare via, e comunque sottolinea la bellezza e l’intensa espressività dei volti. Quasi sempre singoli, e mai più giù del collo fasciato dal velo: uno schiaffo al nostro cinema scollacciato e alla nostra vantata libertà sessuale?
Ma allora, dove la faccenda non funziona? Nella lunghezza – 92 minuti – per tutta l’operazione. Troppo per ritratti a camera fissa pur con un romantico commento musicale ora di sottofondo ora in sordina a una voce narrante intervallata da interminabili silenzi. Troppo anche tenuto conto della bravura delle attrici, che con l’intensità e la varietà (più o meno belle, più o meno giovani, più o meno sentimentali) delle loro reazioni personali, colorano il racconto che si svolge davanti ai loro occhi. Si può restare affascinati e financo rapiti da una trovata simile per… un massimo di 30 minuti, ma poi, quando i volti ritornano, quando il gioco continua, non se ne può più dalla noia e ci si chiede, con un po’ di senso di colpa alimentato dalla crescente irritazione “ma chi si crede di essere questo qui da infliggerci tale penitenza?” Si vorrebbe anche capire un po’ meglio la storia romanticamente tragica che affascina e seduce, fa piangere e – raramente – sorridere le romantiche signore velate del film. 
E può venire in mente anche una mostra fotografica di Kiarostami, abbinata a un concorso cui parteciparono nel 2007 oltre mille foto più o meno professionali provenienti dall’Iran. Il regista mostrava un centinaio di vedute bianco e nero di strade serpeggianti fra prati, boschi, monti, paesaggi vuoti  sotto il sole o la neve, dove ogni albero, sterpo, filo d’erba aveva una presenza viva e concreta: raramente un viandante lontanissimo o un mulo o un bambino accompagnato facevano capire che la terra è ancora abitata. Ebbene, nella sua presentazione Kiarostami affermava testualmente di preferire la fotografia al cinema, perché più libera, la prima, dai vincoli imposti al secondo di attenersi a una storia, permettendo così ad autore e spettatore di sognare, soffermarsi su un dettaglio o andarsene via, ritornare o cambiare aria. Ma allora, Kiarostami, perché ci costringi a stare lì per 92 minuti a seguire la tua non-storia?

Clicca qui per leggere la recensione di Daniele Clementi sullo stesso film

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