Archivio mensile:settembre 2007

" Balla la mia canzone " di Rolf de Heer (1998)

 

 

" Balla la mia canzone " di Rolf de Heer (1998)

Recensione di Elisa Lubiano

Ogni lavoro è diverso dall’altro: certi debilitano fisicamente altri psicologicamente, per alcuni non è richiesta una specializzazione, altri richiedono determinati requisiti fisici. Essere operatore sociale richiede una specializzazione e sicuramente competenze che migliaia di manuali non possono fornire. Dopo aver visto questo film ritengo che una di queste sia la capacità di immedesimarsi nell’altro. Sicuramente è facile nonché comodo, pensare che il tetraplegico abbia una vita insignificante e indegna in quanto non autosufficiente. La letteratura a riguardo viene incontro a noi , persone comuni, passando dal termine “handicap” (dal gergo sportivo inglese hand- in – cap, ovvero punizione- fallo) a quello di “disabile” o, ancor meglio “ diversamente abile”. Questo termine non può che portare con sé una riflessione utile a tutti ma in particolare ai tanti operatori sociali spesso assunti senza una specializzazione (quindi pagati meno!) che più degli altri rischiano di oltrepassare l’insidiosa frontiera della sindrome da burnout, in termini comprensibili da stress da accudimento. L’evoluzione filosofica e poi burocratica che ha portato all’abbandono delle strutture di ricovero alle case-cura non sempre è stato accompagnato da un’adeguata formazione degli operatori generando fallimenti un po’ ovunque e facendo ricadere la colpa sull’utenza. In Italia non c’è al momento una normativa che regoli l’assunzione del personale a trent’anni dalla legge 180/78 nota anche come legge Basaglia. Essere un operatore sociale non vuol dire “lavarsi la coscienza” come afferma la protagonista cercando meschinamente di fare bella figura e questo film lo dimostra. Balla la mia canzone rende la realtà per quello che è senza mezzi termini scritto da Heather Rose, Julia nel film ma veramente costretta su una sedia a rotelle fa balzare agli occhi proprio la differenza di comportamento dei diversi operatori: dagli eccessi di durezza di un a quelli di maternage dell’altra ed in mezzo la vita di una persona disabile che forse mai verrà trattata da adulta, nonostante sia intellettualmente autosufficiente. Credo che questo film sia ricco di spunti ( molti dei quali ho tralasciato) utili per chi ha intrapreso questa delicata professione, per chi convive con un disabile e per tutti coloro che vogliono entrare nella vita normale di persone un po’ speciali, sicuramente molto “cyber”.

CREDITI 
Regia: Rolf de Heer
Sceneggiatura: Rolf de Heer, Heather Rose e Frederick Stahl.
Uscita ufficiale nel paese d’origine: 22 ottobre1998 (Australia)
 – Interpreti principali –
John Brumpton : Eddie
Danny Cowles: Joe
Catherine Fitzgerald : Dogface
Susie Fraser : Assistente sociale
Produttori: Rolf de Heer, Giuseppe Pedersoli e Domenico Procacci.
Colonna sonora originale: Graham Tardif.
Direttore della fotografia: Tony Clark.
Montaggio: Tania Nehme.

Un sito per la Birmania: www.dodeskaden.it (dal 29 settembre al 21 ottobre)

Dal pomeriggio del 29 settembre sino alle 24.00 del 21 ottobre il sito del Circolo del Cinema Dodes’ka-den sarà "occupato" esclusivamente di informazioni sulla Birmania e sulla figura di Aung San Suu Kyi.

Il Circolo, con questo gesto simbolico, vuole testimoniare la sua solidarietà a chi sta manifestando in Birmania in questo momento per liberare civilmente e democraticamente il suo paese dalla dittatura militare.

Per vistare il nostro sito "in rosso": Http://www.dodeskaden.it

Web oscurato in Birmania, blog in rosso
Un responsabile delle telecomunicazioni del regime parla di guasto: «Internet non funziona per un cavo sottomarino danneggiato»

Mentre in Birmania Internet viene oscurato dal regime, nel resto del mondo siti e blog si tingono di rosso in segno di solidarietà al popolo birmano.
I militari cercano con ogni mezzo di impedire che le notizie su quanto sta accadendo escano dal Paese: all’avvio delle proteste hanno iniziato a negare ai giornalisti stranieri il visto d’ingresso, a interrompere i collegamenti dei cellulari dei maggiori attivisti democratici e a oscurare molti blog dove i cittadini rivelavano al mondo quello che stava succedendo (alcuni hanno anche usato biglietti elettronici di auguri e il sito di socializzazione Facebook per raccontare quanto stava accadendo).

WEB BLOCCATO – Ora però la morsa della censura è diventata ancora più stretta: mentre è in corso la caccia ai giornalisti stranieri, collegarsi a Internet è diventato impossibile anche per quei giovani smanettoni che fino a ieri riuscivano a «bucare» la pesante cortina stesa dai militari attorno al Paese: giovani universitari, per lo più residenti a Rangoon, erano finora riusciti a inserire decine di foto e video sui blog documentando passo passo la silenziosa protesta dei monaci buddisti e il crescente appoggio popolare. Ma il flusso delle immagini di quanto sta succedendo in Birmania si è interrotto. Tutti gli internet cafè sono stati chiusi e nessuno risponde ai telefoni degli uffici del principale provider di internet per spiegare come mai non è possibile aver accesso al Web. Che l’accesso alla Rete sia bloccato è stato ammesso anche da un responsabile delle telecomunicazioni, che però ha attribuito il problema a «un cavo sottomarino danneggiato». «Internet non funziona a causa di un cavo sottomarino danneggiato », ha riferito all’AFP un responsabile dell’impresa di Stato, Myanmar Post and Telecoms.

BLOG IN ROSSO – Intanto nel resto del mondo siti e blog si tingono di rosso, il colore delle veste dei monaci e in particolare del «sanghati» che contraddistingue i buddisti birmani. Anche Blogosfere, il più grande network italiano di blog professionali d’informazione con oltre 1.800mila lettori ogni mese, è sceso in campo a favore della libertà della Birmania invitando tutti i blogger italiani ad aderire alla campagna «Free Burma» e a manifestare contro gli avvenimenti di questi giorni. E anche contro il fatto che dopo due giorni di repressione da parte dei militari delle manifestazioni di protesta, sia venuto a mancare il principale canale di diffusione di informazioni e foto da parte della dissidenza birmana su quanto sta accadendo nel paese.

(a.mu.)
28 settembre 2007
Il Corriere della sera

" Ich Klage An " di Wolfgang Liebeneiner (1941)

   " Ich Klage An " di Wolfgang Liebeneiner (1941)
Recensione di Marina Pianu

"GIURO: […] di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la
tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della
sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico,
culturale e sociale, ogni mio atto professionale; di non compiere mai atti
idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente;"
— dal "Giuramento d’Ippocrate"
——————

jack kavorkian, "il mare dentro", welby…
ricordiamo del cittadino welby l’avventura che pose e pone la legge davanti
all’angosciante dilemma: esiste il diritto ad una morte dignitosa? anzi, puo’
l’individuo avere il diritto di decidere come vivere e morire?

"ich klage an" affronta questo tema con toccante sensibilita’ ed equanimita’,
senza voler influenzare l’opinione dello spettatore. o cosi’ pare. se non
conoscessimo l’anno, se qualcuno avesse accuratamente tagliato quei pochi
secondi rivelatori, se ignorassimo lo stile degli abiti, non sospetteremmo
che questo film venne partorito dal terzo reich, nell’ambito della campagna
preparatoria al programma aktion t4 (sterilizzazione e soppressione di
individui "imperfetti"). sorprendentemente scevro da plateale retorica o
linciaggio, e similmente equilibrato nel mostrare le ragioni contrarie
all’eutanasia, allo spettatore di oggi, che resta alla fine lui solo a dover
fornire una sentenza al caso, la conclusione non sembra del tutto ovvia. allo
spettatore tedesco anni ’40, che non sapeva come sarebbero andate le cose,
l’assoluzione del medico pareva molto piu’ logica e giusta.

"la scienza medica consente di prolongare la vita al di la’ della sua normale
aspettativa. malati cronici che, nello stato di natura, sarebbero morti in
breve tempo, ora vengono tenuti in vita nelle piu’ atroci sofferenza."
(succo della testimonianza di un medico, a favore di thomas heyt)

noi siamo piu’ prevenuti, nel bene e nel male; da una parte gli esperimenti
nazisti di eugenetica, dall’altro il caso di piergiorgio welby. quello che
pero’ denuncia l’intento recondito del film e’ il suggerimento finale di
istituire una giuria avente lo scopo di stabilire quando e a chi applicare l’
"uccisione pietosa". fino a quel punto, la linea di demarcazione tra omicidio
ed eutanasia era data dall’espressa volonta’ del malato, combinata invero con
le sofferenze e l’imminenza della morte (hanna sarebbe morta "appena" due
mesi dopo, forse per soffocamento). il lasciarci senza una sentenza
definitiva ma solo con l’auto-apologia di thomas e’ una trovata molto furba e
meno ingenua di altri film posteriori, similmente propagandistici.

il film ha i suoi decorosi meriti artistici: ottime performance degli attori,
convincenti e poco caricati; inquadrature e sequenze degne di lang o
hitchcock; abilita’ di coinvolgere lo spettatore nelle vicende e nelle parti,
esponendolo dapprima al quadro felice del matrimonio e poi, con crescente
tragicita’, al rapido progredire del male. un film molto abile, molto bello,
e con il pregio (se si riesce ad allontanare il pregiudizio) di dare molto da
pensare. cosi’ come la matrice nazista non deve offuscare il giudizio sulla
qualita’ della pellicola, cosi’ la stessa matrice non dovrebbe precludere una
riflessione "laica" sul tema. vale ricordare, a mo’ di esempio, che hitler
era un accanito non-fumatore. forse che tutti i non-fumatori sono nazisti?

a corredo, e per contraltare, segnalo un filmino di fantascienza,
difficilmente reperibile: "tomorrow’s children" (usa, 1934), che ipotizza
programmi di sterilizzazione forzata di individui discendenti da "imbecilli".
l’idea prende lo spunto da un caso giudiziario reale, "buck vs. bell" (la
corte suprema giudico’ lecita la sterilizzazione forzata di individui
ritardati). come dire…? se sparta piange, atene non ride.
se invece volete ridere, c’e’ sempre il breve animato "kavorkian scarf"
(facilmente scaricabile da internet).

n.b.: il film e’ tuttora bandito in germania, ne’ vi sara’ molto facile
trovarlo in giro. anche per questo dobbiamo ringraziare enrico ghezzi…! 

CREDITI
Regia: Wolfgang Liebeneiner
Sceneggiatura: Eberhard Frowein e Wolfgang Liebeneiner
Uscita ufficiale nel paese d’origine: 29 agosto 1941 (Germania)
 
 – Interpreti principali –
 
Heidemarie Hatheyer: Hanna Heyt
Paul Hartmann: Professor Thomas Heyt
Mathias Wieman: Dr. Bernhard Lang
Margarete Haagen: Berta
Charlotte Thiele: Dr. Barbara Burckhardt
Christian Kayßler: Kriebelmeyer
Harald Paulsen: Eduard Stretter
Albert Florath: Professor Schlüter

Produttore: Heinrich Jonen
Colonna sonora originale: Norbert Schultze
Direttore della fotografia: Friedl Behn-Grund   
Montaggio: Walter von Bonhorst

Speciale su Radio Aldebaran (26/09/07)

Oggi alle 12.20 su Radio Aldebaran parliamo del prossimo film di Quentin Tarantino.

" Open water " di Chris Kentis (2003)

" Open water " di Chris Kentis
Recensione di Elisa Lubiano

Immaginiamo per un momento le paure che possono avere i subacquei, sono molte. Ogni minuto prima e durante l’immersione è un esercizio di memoria, attenzione, lucidità, cieca fiducia nel proprio compagno e nella tecnologia. Certo il fascino di muoversi con naturalezza in un ambiente altrimenti inaccessibile, osservare le abitudini degli animali marini, scoprire i colori di questo mondo un po’ magico rende lo stress che si subisce accettabile. Durante il viaggio dall’approdo al luogo dell’immersione si discute spesso sul linguaggio che si userà dopo il tuffo, sul precorso che si affronterà e se in cambusa c’è abbastanza acqua e focaccia… bè si, riemergendo si ha una gran sete e l’acquolina alla bocca. Quando la barca d’appoggio è arrivata sul sito dell’immersione inizia il rito della preparazione: i subacquei ricontrollano l’attrezzatura, indossano le mute, le pinne, il jacket, la bombola, la maschera aiutandosi l’un l’altro e poi il tuffo, splash, l’ingresso in un altro mondo. Per un momento ci si sente come alice nel paese delle meraviglie, ogni riferimento è perso, naturalmente è solo un’illusione. Un occhio all’orologio, uno al manometro e l’ok che si scambiano i subacquei ristabilisce l’ordine. Ma poniamo il caso che una volta riemersi non vi sia nessuno ad aspettare, allora l’incantesimo che donava l’acqua si trasforma in una maledizione. Le navi o la terra ferma che possono apparire vicine sono in realtà lontane miglia e lo sforzo per raggiungerle è sproporzionato a ciò che si ottiene. Tutto questo lo potete vedere nelle immagini di Open Water, il film è tratto dalla storia vera accaduta nel 1998 quando due subacquei statunitensi, Tom e Eileen Lonergan, furono dimenticati dal coordinatore dell’immersione sulla grande barriera corallina australiana, i loro corpi non sono mai stati ritrovati. Poco tempo dopo, nella stessa zona, è stata ritrovata una macchina digitale subacquea nello stomaco di uno squalo pescato, e i due fatti sono stati collegati. Il documentario è realizzato interamente in digitale e senza l’ausilio di effetti speciali, la colonna sonora è in realtà una serie di rumori o di canti tribali australiani molto d’effetto. La scelta del digitale fa supporre un diario di viaggio filmato creando una forte empatia tra lo spettatore e i protagonisti della vicenda. Il film è stato ideato e realizzato nei ritagli di tempo da due provetti sub Chris Kentis e la moglie Laura Lau. Il film è stato presentato Sundance Film Festival nel 2003 e gli ha fruttato ben 2.370.000 netti secondo me meritati in quanto nel film traspare l’amore per questa attività. Certo si può contestare una certa spettacolarizzazione della tragedia ma credo che fare un film sulla subacquea amatoriale senza evidenziare bene i pericoli che comporta sia solo controproducente. Inoltre il finale è quello che immagina possa essere accaduto il Kentis.

CREDITI
Regia: Chris Kentis
Sceneggiatura: Chris Kentis
Uscita ufficiale nel paese d’origine: 26 Ottobre 2003 (USA – Hamptons International Film Festival)
 – Interpreti principali –
Blanchard Ryan: Susan
Daniel Travis: Daniel
Saul Stein: Seth
Estelle Lau: Estelle
Michael E. Williamson: Davis
Cristina Zenarro: Linda
John Charles: Junior
Steve Lemme: subacqueo sulla barca
Produttori: Estelle e Laura Lau e Gary Lorenzo.
Colonna sonora originale: Graeme Revell
Direttore della fotografia: Chris Kentis e  Laura Lau
Montaggio: Chris Kentis
Durata: 79′

" The agronomist " di Jonathan Demme

" The agronomist " di Jonathan Demme

Recensione di Elisa Lubiano

Le ultime discussioni al cineclub sulle rivoluzioni mi spingono a recensire un film di qualche anno fa. Si tratta di "The Agronomist" di Jonathan Demme presentato a Venezia nel 2003. Il film documentario si concentra sui problemi politici e sociali di Haiti attraverso la testimonianza di  Jean Dominique. La sua eloquenza, passione,  coraggio e determinazione danno speranza al popolo haitiano e allo spettatore che crede in un mondo giusto fondato sui diritti umani anziché sui diritti di brevetto ( e simili). La lotta di Jean Dominique inizia introducendo la lingua creola, nata dalla colonizzazione francese quindi di forte richiamo politico, in ambienti colti come il cinema o la radio. L’identificazione di un popolo in una lingua che non sia imposta dall’alto ma che sia stata elaborata dal popolo stesso ha un insostituibile valore identificante e unificante, a questo proposito cito un proverbio corso che trovo esemplificativo: “una lingua si cheta, un populu si more”. L’impegno politico di Jean Dominique, iniziato negli anni sessanta, si schiera dalla parte del popolo, dei contadini, si batte per i diritti umani, la democrazia e contro lo sfruttamento di questa terra non industrializzata da parte delle super potenze. Costretto più volte all’esilio anziché demordere ha acquisito vigore e determinazione. Colpisce l’atteggiamento di Jean Dominique per l’ottimismo dei sui pensieri e la chiarezza della sua esposizione. Ottimismo e chiarezza di fronte alla grave crisi politica e sociale del suo paese, questo atto non cela superficialità, bensì, fermezza  contro un Paese sotto dittatura. Il film è concentrato sul caso di Haiti ma queste problematiche sono di interesse globale e urgono soluzioni efficaci.
Le riprese del film iniziarono nel 1993 e vennero interrotte perché Jean Dominique dovette fuggire negli Stati Uniti, Jonathan Demme perse le sue tracce sino al 2000. In quell’anno il regista montò il film utilizzando sia riprese create da lui che di altri, il documentario doveva essere pronto per donare ancora speranza al martoriato popolo haitiano.

" Io non sono qui " di Todd Haynes

" Io non sono qui " di Todd Haynes

Recensione di Marina Pianu

nove anni fa la storia lampeggiante di brian slade / maxwell demon,
personificazione fittizia di david bowie; sullo sfondo un quadro complesso
della scena glitter anni ’70. molti anni prima, ralph bakshi realizzo’
"american pop", exursus musicale attraverso generazioni di personaggi
facilmente identificabili in vere personalita’ musicali (per es., lou reed e
janis joplin) in fluide sequenze diacroniche. oggi, per mano del regista di
"velvet goldmine" (1998), arriva "i’m not there", sei ipotesi di ritratto del
menestrello folk / beat, ma anche ritratto di un decennio.

un hobo bambino parte da riddle (enigma) in un’america a cavallo tra la
depressione e la fine degli anni ’50 saltando da un treno all’altro in cerca
di fama e gloria; uno pseudo-phil ochs piomba nel mondo folk come una meteora
(e intrattiene breve relazione con pseudo-joan baez) per poi rinascere
cristiano; pseudo-arthur rimbaud sputacchia provocazioni davanti a un
poliziotto (e a noi); pseudo-kris kristofferson (quello vero e’ la voce
narrante!) attraversa l’america del vietnam, dal sottobosco del village al
conformismo hollywoodiano; pseudo-bob dylan in tournee a londra gioca con i
fab four, schifa la stampa di genere, si stressa di psichedelia, incontra il
guru perfetto e finisce nel tritacarne dell’industria; infine, uno
pseudo-billy the kid vecchio ritorna a riddle (enigma), a cavallo tra ‘800 e
‘900… tutte facce contraddittorie e ambigue della stessa medaglia.

un viaggio surreale, enigma allucinogeno tra le ipotesi di ritratto, nessuna
delle quali corrisponde al personaggio (io non ci sono, appunto); un ritratto
che sarebbe piaciuto a bontempelli (nostra dea) e a pirandello (uno nessuno
centomila); l’io (che non c’e’) si riverbera in sei vite differenti, con un
tratto in comune: l’amore per la musica. a qualcuno non e’ piaciuto che
nessuno, a parte cate blanchett, potesse sia pur lontanamente assomigliare a
bob, ma quel qualcuno non ha letto il titolo del film. tanto irrilevante e’
la somiglianza fisica, o anche gestuale, che quando appare il viso di
charlotte gainsbourgh, mi aspettavo davvero che fosse la quinta incarnazione
del menestrello, mentre il personaggio a cui guardare era il corpulento
robbie, il meno somigliante di tutti (a riprova?).

come un quadro espressionista, il ritratto emerge non solo nella rifrazione
dei sei personaggi (pirandello?), ma anche nel continuo intersecarsi fra
storie, alternando bianco e nero con colore, la testimonianza postuma con la
rievocazione del passato, un passato in cui il presente (quello degli anni
’70) s’infiltra come pat garrett a enigma (riddle) con la sua minacciosa
autostrada (pat che sembra la versione vecchia di ginsburg ma ha la faccia
del giornalista antagonista di "rolling stone") per riportare l’eroe sulla
retta via. ciclico passaggio, ciclici personaggi, motocicli: billy inizia il
viaggio "on the road" sulle rotaie per ritornare al woody iniziale, e "on the
road" jude si schianta con la moto (nessun timore, non muore, i sogni restano
per sempre).

piu’ che folk (disconoscimento a piu’ voci, nonostante l’irreale veglia al
capezzale del vero woody guthrie, ma meno vero di "alice’s restaurant"), il
non-dylan e’ soprattutto beat, indirizzando versi dissacranti (ma poco
"url"ati) ad un crocefisso insieme allen ginsburg, scorreggia. un quadro
multiforme e cangiante accompagnato da una colonna sonora ricchissima (alcuni
brani interpretati da altri artisti, compresa la gainsburgh) che non puo’
deludere il fan appassionato, anche perche’ la geniale frammentazione
racconta molto di piu’ di qualunque biopic tradizionale. le interpretazioni
sono tutte mirabili, anche se la parte del leone la fa cate blanchett, come
dimostra anche il premio a venezia. particolare nota merita invece, a mio
parere, marcus carl franklin.

p.s. auguri, charlotte, buona guarigione!!!

"What folk music is… is based on myths and the Bible and plague and famine
and all kinds of things like that which are nothing but mystery and you can
see it in all the songs… All these songs about roses growing out of
people’s brains and lovers who are really geese and swans that turn into
angels… and seven years of this and eight years of that and it’s all really
something that nobody can touch…. are not going to die."

—————————
Titolo originale: I’m not there
Regia: Todd Haynes
Produttori: Christine Vachon, Jeff Rosen
Sceneggiatura: Todd Haynes, Oren Moverman
Cast: Christian Bale, Cate Blanchett, Charlotte Gainsbourg, Richard Gere,
Heath Ledger, Julianne Moore
Musica: Bob Dylan (vari esecutori)
Distribuzione: The Weinstein Company, Bim
Durata: 135′
Paese: U.S.A.

Colonna sonora:

"All Along The Watchtower", Eddie Vedder and the Million Dollar Bashers
"As I Went Out One Morning", Mira Billotte
"Ballad Of A Thin Man", Stephen Malkmus and the Million Dollar Bashers
"Billy", Los Lobos
"Can You Please Crawl Out Your Window", The Hold Steady
"Can’t Leave Her Behind", Stephen Malkmus and Lee Ranaldo
"Cold Iron Bound", Tom Verlaine and the Million Dollar Bashers
"Dark Eyes", Iron & Wine and Calexico
"Fourth Time Around", Yo La Tengo
"Goin’ To Acapulco", Jim James and Calexico
"Highway 61 Revisited", Karen O and the Million Dollar Bashers
"I Dreamed I Saw St. Augustine", John Doe
"I Wanna Be Your Lover", Yo La Tengo
"I’m Not There", Bob Dylan
"I’m Not There", Sonic Youth
"Just Like A Woman", Charlotte Gainsbourg and Calexico
"Just Like Tom Thumb’s Blues", Ramblin’ Jack Elliot
"Knockin’ On Heaven’s Door", Antony & The Johnsons
"The Lonesome Death Of Hattie Carroll", Mason Jennings
"Maggie’s Farm", Stephen Malkmus and the Million Dollar Bashers
"Mama You’ve Been On My Mind", Jack Johnson
"The Man In The Long Black Coat", Mark Lanegan
"Moonshiner", Bob Forrest
"One More Cup Of Coffee", Roger McGuinn and Calexico
"Pressing On", John Doe
"Ring Them Bells", Sufjan Stevens
"Senor (Tales Of Yankee Power)", Willie Nelson and Calexico
"Simple Twist Of Fate", Jeff Tweedy
"Stuck Inside Of Mobile With The Memphis Blues Again", Cat Power
"The Times They Are A Changin’", Mason Jennings
"Tombstone Blues", Richie Havens
"When The Ship Comes In", Marcus Carl Franklin
"Wicked Messenger", The Black Keys

 

" Caterina va in città " di Paolo Virzì (2003)

" Caterina va in città " di Paolo Virzì

Recensione di Marina Pianu

caterina non e’ la claudine-colette. claudine e’ l’antesignana delle lolite
anni ’60, precoce, maliziosa e innocente (o innocentemente maliziosa:
ambiguita’ dello sguardo maschile). caterina non e’ una ninfetta. e’ una
normalissima ragazzina che sta per sbocciare, carina ma non ancora donna.
vive in una famiglia "normale" e non ha uno speciale rapporto col babbo,
anche perche’ lei la mamma ce l’ha (al contrario di claudine) ma ha uno
speciale talento per il canto (si sfoga a spararsi nelle cuffie la corale di
bach). la famiglia, pero’, non e’ proprio normale. tanto per cominciare i
genitori non sono separati (che, in citta’, e’ invece la norma) anche se il
loro rapporto non e’ proprio dei migliori: padre "dialettico" che si sente
circondato da inetti e idioti, compresa la moglie casalinga, a sua volta resa
piu’ goffa e insicura dalla soggezione per il marito. la famiglia regge pero’
bene e per il senso del dovere della madre, e per tutto il tessuto sociale
che li circonda. seguendo i sogni del padre, la famiglia si trasferisce
dunque nella grande citta’, abbandonando la paciosa, intima e forse un po’
claustrofobica provincia.

caterina deve dunque lasciare i compagni d’infanzia e il coro per esordire in
una scuola che, a dire la verita’, stride un po’ con le case popolari dove i
iacovoni s’insediano (la casa dove giancarlo e’ nato e cresciuto). il
visconti, in pieno centro romano, ospita infatti i pargoli della crema piu’
cremosa della societa’ bene: la classe si divide manicheamente tra
"comunisti" (partigiani di margherita, figlia di due intellettuali separati)
e "fascisti" (affiliati a daniela, figlia di un sottosegretario di estrema
destra). caterina vive la sua iniziazione romana passando da un ambiente
all’altro, dall’estroversa nevrosi intellettual-sinistrorsa alla superficiale
sguaiatezza freneticamente spendacciona. lei, ragazzina ancora innocente
(perche’ viene dalla provincia?), sembra attraversare questi mondi da
distaccata testimone, annotando puntualmente sul suo diario vocale incontri,
episodi e vicende. il suo sguardo e’ fresco e distaccato, ma il
coinvolgimento (o il rifiuto) si materializza poi nel malessere (vomito,
rissa, fuga).

mentre pero’ caterina sfiora la crema senza quasi accorgersi del privilegio,
il padre vive la terribile delusione di trovarsi ad insegnare in una scuola
piu’ disastrata di quella che ha lasciato, senza sbocchi per i suoi sogni nel
cassetto (rasenta il patetico quando cerca di intortare margherita per
consegnare il suo romanzo alla madre, cosa che la ragazzina non fara’). se
rimprovera alla moglie di essere "fuori dal mondo" (la buy pero’ lo e’ stata
con silvio orlando!), in realta’ chi e’ piu’ fuori dal mondo e’ proprio lui
che non si accorge di cio’ che accade a caterina o ad agata, se non quando e’
troppo tardi.

il film non ha il tocco lieve e arguto degli altri film di virzi’. tutto
sembra forzato ed esagerato, ricalcando triti stereotipi: la citta’ corrotta
contro la campagna pura, la gioventu’ dorata un po’ troppo garrula, gli
intellettuali un po’ troppo alienati se non falsi, la troppa sfiga dello
stesso giancarlo (ma quando mai un insegnante viene sospeso per una
apparizione al costanzo show?). e guarda caso, a contatto con la realta’
cittadina, corrotta e corruttrice, la solida famigliola di provincia si
sfascia: troppe le tentazioni e le distrazioni. sembra anche incredibile che
una ragazzina di 12 anni possa sopravvivere cosi’ serenamente alla
separazione dei genitori, quasi come se il padre fosse solo accessorio. anche
se la presenza di attori di tutto rispetto e una protagonista convincente ci
consola, non possiamo fare a meno di chiederci alla fine: ma dove voleva
arrivare virzi’?

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Caterina va in città
Sceneggiatura: Francesco Bruni, Paolo Virzì
Regia: Paolo Virzì
Cast: Alice Teghil, Sergio Castellitto, Margherita Buy, Claudio Amendola,
Flavio Bucci, Antonio Carnevale, Paola Tiziana Cruciani, Galatea Ranzi
Durata: 90′
Anno: 2003
Produzione: Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini, Marco Chiminez
Distribuzione:   01 Distribution

" The Simpsons Movie" di David Silverman (2007) – 3

INTERVISTA DI ELISA LUBIANO AD UNO SKATER DI LAVAGNA

Aspettavi l’uscita del film The Simpson?
Assolutamente no.
Perché sei andato a vederlo?
Perché degli amici mi hanno invitato.
Segui la serie in televisione? Te la senti di fare un paragone tra il film e il telefilm?
Non possiedo la TV e vivo ugualmente felice.
Allora cosa ti ha colpito maggiormente?
L’impossibilità e l’improbabilità delle evoluzioni motociclistiche di Homer.
Nient’altro?
(dopo una lunga riflessione) Spiderpork, Spiderpork.
Per quale motivo?
Suonava bene il motivetto… ma che ne so!
Concludiamo con una domanda più semplice, per te che sei un famoso skater, cosa ne pensi della skateata di Bart?
Una cagata pazzesca senza senso!
L’intervista poteva proseguire ma mi sono chiesta: perché farci del male?

" The Simpsons Movie" di David Silverman (2007) – 2

” The Simpsons Movie” di David Silverman (2007)

Recensione di Elisa Lubiano

Molto più educata al cinema che in televisione la famiglia Simpson riesce comunque a catapultarci in modo leggero nel cuore dei problemi sociali. Il film è quasi privo di scoregge, rutti e sbronze a cui ci ha abituato la serie, naturalmente questo passa inosservato in quanto la comicità “paperinesca” di Homer e della famiglia con altre sfumature è trascinante e adatto anche agli spettatori più piccoli. Nonostante ciò le critiche al sistema americano e non solo si alternano con rapidità passando dalla discussione della vecchia (quanto meno anagraficamente) legge di copyright ai problemi ambientali, dalla spiacente situazione della classe politica alla relazione padre e figlio sino a una splendida profezia di nonno Simpson che a primo impatto mi ha dato l’idea di come poteva essere avvenuta l’elaborazione Exposito in Apocalypsim di Gioacchino da Fiore, anche se differisce dalle intenzioni di David Silverman. Moltissimi i riferimenti ai film, compreso quello di Al Gore, Una Scomoda Verità, passato inosservato dal nostro pubblico perché trasmesso in una sola sala a Genova una sola sera. Forse gli spunti di riflessione sono banali, già masticati ma sicuramente sono attuali e non hanno ancora avuto una risposta dalle relazioni diplomatiche internazionali. Comunque bisogna ricordare che il target di questo lungometraggio è under 35 e quindi anche se una parte di questi ragazzi può trovarsi, dopo aver visto il film, solo con un pugno di risate in più, dobbiamo ricordare che la fetta più grande di questi spettatori dovrà fare i conti con il sottointeso input ad approfondire.
Il film ha l’intento di educare lo spettatore sino all’ultimo… vedere per credere!