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NYMPHOMANIAC VOLUME II di Lars Von Trier, Danimarca 2014


 

Forse qui deluderò chi vorrebbe condannare senza speranza Lars Von Trier ma non posso assolutamente bocciare l’ambizioso e provocatorio porno dramma del regista danese ed ora che è finalmente uscita la seconda ed ultima parte direi che l’opera nella sua completezza non è poi così male. Naturalmente stiamo parlando di un film medio del regista danese e quindi non sarà probabilmente la pietra miliare della sua carriera, naturalmente la provocazione/trovata pubblicitaria delle nudità in taglio pornografico contribuiranno a rendere meno diffuso negli ambienti più formali ed accademici il film ma resta il fatto che Lars Von Trier ha fatto il suo lavoro d’autore in modo pulito, preciso e perfino più chiaro di tante altre occasioni. In fin dei conti la condanna alla nudità integrale, alla raffigurazione in scena del sesso e della perversione daranno fastidio a tanti bigotti moralisti ma non è in alcun caso il problema del film almeno non dal punto di vista etico e culturale. La critica che si può muovere più concretamente è caso mai la banalità di alcuni dialoghi che pur essendo molto alti risultano talvolta perfino asettici e banali, trovo infatti molto più fastidiose le disgressioni filosofiche  e letterarie che il film si concede delle scene pornografiche in tutta la loro spregiudicata furbizia commerciale. L’oscenità, se proprio la si vuole trovare, può stare di più nella gratuità di alcune riflessioni pseudo filosofiche e sociologiche che lasciano un pochino il tempo che trovano e che solo in alcuni casi sono abbastanza interessanti ed originali da obbligare lo spettatore a fermarsi a riflettere, più spesso sono un catalogo di nozioni che accompagnano e danno lustro alla “scopata” che le precede o le segue. La qualità degli attori e le capacità di regia di Lars Von Trier sono invece come sempre una garanzia per uno spettatore in cerca di un prodotto più alto della media ed anche alcune scelte di taglio registico sono davvero notevoli e sopra la media europea contemporanea. Alla fine considero “Nymphomaniac” un tentativo intelligente di commercializzare il cinema d’autore dove il più grande errore non sta tanto nella pornografia ma nella scelta di dover spiegare esplicitamente ed intellettualmente la stessa lasciando troppo poco su cui lavorare allo spettatore.

Daniele Clementi

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NYMPHOMANIAC VOLUME I di Lars Von Trier, Danimarca (Berlinale 2014)

Lars Von Trier racconta senza autocensure la vita di una donna chiamata Joe fra sesso, morte e matematica. Un film duro, razionale, crudele ed almeno per l’autore liberatorio. Il ritorno dell´ambizioso regista danese passa per una narrazione psicologica e scientificamente clinica delle condizioni della psiche intervallata da scene che più che pornografiche sembrano il frutto di un logico e freddo documentario sulla meccanica del rapporto sessuale. Il film, divertito e divertente a tratti, si snoda attraverso un caleidoscopio di personaggi tormentati e devastati dal dolore o dal sesso, si lascia poi allo spettatore il gusto di riconoscere tutti gli attori famosi che compaiono nel film. Se Bergman non aveva bisogno di mostrare il sesso o la sessualitä per raccontarlo (“Persona”) Lars Von Trier ha bisogno di mostrarlo clinicamente per poterne fare a meno nella profondità del racconto, in sostanza un film sul sesso che compare nella sua forma piü vuota e miserabile per spingere l´immaginazione del pubblico oltre la superfice e costringerlo a guardare l´oscuro che si annida in lui o quantomeno nel regista.
Daniele Clementi

"Melancholia" di Lars Von Trier

Cannes

Il pianeta Melancholia è in rotta di collisione contro la terra, gli scienzati minimizzano l'evento garantendo al mondo che il pianeta errante sfiorerà il globo terrestre per poi allontanarsi, l'umanità si illude, sogna, spera, ma inerosabilmente il pianeta in movimento si avvicina alla terra, prima come una seconda luna, poi sempre più grande, sempre più minaccioso fino all'inevitabile, la paura più ancestrale dell'uomo si realizza, resta solo il dubbio di come vivere gli ultimi istanti della propria esistenza.

Lars von Trier mette in scena la morte del mondo attraverso gli occhi di due sorelle, la prima intuitiva, uterina, emotiva ma profondamente in contatto con l'essenza più impalpabile delle cose e la seconda pratica, logica, formale e perfino sistemica, ma profondamente terrorizzata dalla natura oscura della vita. Nel mezzo della fine dell'umanità va in scena un matrimonio destinato a finire prima di iniziare e l'inesorabile attesa del giorno del giudizio che arriva disperatamente dolce e delicato, portando con sé un inspiegabile senso di pace e ancestrale fatalità.

Un lungometraggio intenso e suggestivo, magistralmente interpretato e magicamente vicino al film di Terrence Malick presentato proprio due giorni prima, la cronaca di una fine che racchiude in sé la magia della vita ed il segreto più nascosto della fragilità eterna dell'essere umano.

Daniele Clementi

CANNES 2009: "AntiChrist" di Lars Von Trier

La pietra dello scandalo al Festival di Cannes è ovviamente Lars Von Trier, con un film unico e disturbante, geniale e malvagio, che fa pensare alla rinascita del cinema splatter e di tortura di Tobe Hooper degli anni '70, che ha visto esponenti di spicco come il bravo Eli Roth con l'indimenticabile "Hostel". Il film comincia con una scena al rallentatore di un amplesso violento ed animalesco fra i protagonisti, una scena di fortissimo impatto, accompagnata da un brano di musica lirica ed una scelta cromatica di bianco e nero. La sequenza intervalla l'amplesso con le scene di un bambino molto piccolo che lentamente tenta di raggiungere i genitori impegnati nell'atto sessuale. Bisogna precisare che il regista danese non manca di mostrarci anche un primo piano dei genitali dei protagonisti, con un inquadratura degna di un film porno, incastonata in una sinfonia visiva inedita e provocatoria.

L'amplesso si conclude in parallelo con la caduta del bambino dalla finestra. Da quel momento in poi la storia del film è una scrupolosa ricostruzione del lutto a colori. Per non rovinarvi il gusto di vedere questo film straordinario ci limiteremo a dirvi che Lars Von Trier passerà in continuazione dal cinema horror al dramma psicologico, non mancando di regalarci sequenze di erotismo che rasentano consapevolmente la pornografia ed incredili scene di mutilazione fisica degne di un classico dello splatter. Forse quello di Lars Von Trier è il primo film a mostrare un'evirazione femminile in tutto il suo orrore ma non bisogna cadere nell'errore bigotto di pensare che tutto sia spettacolo senza poesia, in realtà ogni singola sequenza è il frutto di un lavoro ossessivo e straordinario sulla psicoanalisi, la stregoneria medievale e la parte più nascosta ed oscura della donna.

In tutta onestà forse  è il primo film che racconta il lato oscuro della donna fin nel suo più intimo profondo, passando dalla nevrosi all'isteria, senza dimenticare la stregoneria e la Santa Inquisizione.

Un film dell'orrore magnifico, proprio perchè dell'orrore non è, ma vi attinge solo per raccontare con inedita crudeltà visiva la parte più spaventosa nascosta dentro di noi. La foresta che compare nel film, poi, è semplicemente magistrale, un esempio di narrazione visiva che fa pensare all'immortale "Shining" ed a Stanley Kubrick, non a caso altro grande genio del cinema con evidente vicinanza al sadismo.

Un film semplice nella messa in scena ed elaboratissimo nei significati, un lungometraggio che inevitabilmente farà parlare di sé e procurerà non pochi disturbi agli spettatori più ottusi e moralisti che non vogliono o non sanno vedere l'oscurità che li circonda e li permea, Grazie a Dio, o all'Anticristo, Lars Von Trier è tornato, più crudele, lucido e geniale che mai.

Daniele Clementi

La democrazia? Lars Von Trier e M. Night Shyamalan, passando per i capelli rossi. (2)

Seconda puntata – Manderlay e la comunità schiava. scelta o paura di scelta?

Seconda opportunità, andiamo a Manderlay (2005), Alabama, e proviamo con una comunità nera, di ex schiavi. E’ sempre Grace la protagonista, è sempre rossa di capelli ma non è più Nicole Kidman, ora è Bryce Dallas Howard (la figlia di Ron Howard, il Ricky Cunningham di Happy Days, ricordate?). La vediamo nella Cadillac del padre (Willem Dafoe), davanti al latifondo interamente recintato dove Grace scopre che la schiavitù, seppure abolita da anni in America per legge, in quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini (si fa per dire, in fondo, tutto il mondo intero, mi risulta “dimenticato da qualsiasi Dio”) continua invece ad esistere. Siamo ancora in una scenografia teatrale, anche se si è fatta appena più ricca, più complessa, più strutturata. E’ proprio Grace a decidere di rendere la libertà agli schiavi, a creare ex novo una democrazia, nonostante il padre tenti di dissuaderla ricordandole che da bambina aveva voluto liberare il canarino in gabbia, nonostante tutti le consigliassero di non farlo, lei lo aveva fatto ugualmente ed il giorno dopo lo avevano trovato morto sotto la finestra. Ma Grace è testarda e resta a costruire, da mentore e da partecipante, la nuova democrazia.
I vecchi padroni bianchi, per contratto, diventano servi, i vecchi schiavi proprietari, ma non sono né in grado di misurare il tempo, né di prendere decisioni per ristrutturare le proprie case o mandare regolarmente avanti, come avevano fatto per anni da oppressi, la piantagione di cotone che gli ha sempre dato da vivere. Grace si rimbocca le maniche ed inizia a tenere le sue “lezioni” di democrazia, si esprimono pareri ed idee, si vota a maggioranza e la maggioranza decide. Scopre un libro, vergato a mano e conservato dalla vecchia padrona ormai morta, la Legge di Mum, in base al quale gli schiavi vengono tenuti nella più totale sudditanza psicologica, e nel quale vengono anche definiti e suddivisi in 7 categorie caratteriali e comportamentali. La comunità si trova, tra l’altro, davanti alla sua prima, grande decisione, l’istituzione o meno della pena di morte per colei che è considerata, seppure indirettamente, responsabile della morte di una bambina. E la maggioranza decreta per la pena di morte, non ci sono alternative, né perdono. Grace, la portatrice della democrazia, deve accettare la decisione e si fa anche carico dell’esecuzione materiale della vecchia. Il raccolto arriva, ed anche l’incasso della vendita del cotone, ma… anche qui c’è un ma. I soldi spariscono, la comunità non ha più nulla. Ma Grace viene a sapere per vie traverse che è stato uno dei negri, proprio quello per il quale lei provava una irrefrenabile attrazione, proprio quello con cui aveva avuto un brutale amplesso la notte prima, che ha giocato, e perso, tutto l’incasso al tavolo da gioco.
Grace decide di andarsene, ha fallito, il padre passerà alle Otto in punto con la sua Cadillac, e la attenderà solamente un quarto d’ora. Ma la comunità ha preso un’altra decisione per lei, perversamente usandole contro la stessa democrazia, sovrana, da lei appresa. Non sono in grado, gli dicono, di vivere da uomini liberi, sono nati schiavi e moriranno schiavi, tornerà pertanto in vigore la Legge di Mum, ed in un’epifania improvvisa e dolorosa scopriamo addirittura che è stato proprio il più anziano dei negri a vergarlo di proprio pugno (uno splendido Danny Glover), ma hanno bisogno di una nuova padrona che la eserciti e questa padrona sarà proprio Grace, volente o nolente. Grace è accerchiata, decide di fingere, di assecondare la decisione ed usa la frusta, con cui punisce violentemente il suo amante, responsabile del furto, e del naufragio della sua “creatura” democratica, diventando per un attimo padrona incontrastata dei corpi, e delle menti, dei propri schiavi, poi, vedendo una via di fuga, corre al cancello a cercare il padre, ma lui è già andato via. Il quarto d’ora previsto è già trascorso, il tempo, a Manderlay, era solo un’approssimata convenzione. Fugge a piedi, dall’orrore che lei stessa ha contribuito a creare, inseguita dai negri con le fiaccole accese… Sui titoli di coda scorrono le immagini, documentarie, della storia dei neri d’America, dalle manifestazioni pro e contro i diritti dei neri, al Ku-Klux-Klan, ai ghetti, alle impiccagioni, alle violenze, alla miseria di oggi, alle armi, ai pestaggi, alle guerre di presidenti democratici e repubblicani su su fino all’Iraq, l’ultima immagine è dedicata ad un negro che, con un bastone ed uno straccio, pulisce il volto della statua di Abraham Lincoln.

Anche questo esperimento è fallito. A fronte dell’ottenimento di libertà ed uguaglianza, c’è sempre qualcuno che cerca di fregare tutti gli altri, accaparrando tutto per sé e per giunta facendone un pessimo uso (e magari questo ci ricorda qualcuno di molto più vicino a noi, nel tempo e nello spazio). Le comunità americane, secondo Von Trier, bianche o nere che siano, hanno fallito. Non a caso l’ambientazione temporale è quella degli Anni Trenta, è il passato, ma forse non lo è. Una nascita “corrotta” porta con sé una crescita “corrotta”. Gli uomini sono troppo stupidi, o troppo meschini, per realizzare e mantenere una democrazia. Almeno in America. E ancora un’altra Grace, ancora con i capelli rossi, fa da “oggetto estraneo” nella comunità nera. Nessuno la perseguita e la tocca in questo secondo film, ma è solo un’apparenza, perché la violenza che subisce è ancora più grande, più plateale, è la violenza al concetto stesso di democrazia, di cui lei si fa portatrice, meglio, che lei stessa rappresenta. L’estranea, in questa comunità nera, è la democrazia stessa, pervertita al punto da farla divenire essa stessa schiavista, essa stessa, nell’esecuzione della vecchia negra, portatrice di morte (come di fatto accade, tristemente, anche nella realtà). Quelle frustate, disperate, che precedono la fuga del finale, ne sono l’emblema: niente uguaglianza, nessuna conquista dei diritti, nessuna libertà, la democrazia americana schiavizza ed opprime se stessa, per libera scelta.
Con una fuga inizia il primo film, con una fuga termina il secondo. Sembra che ci rivedremo a Washington, il terzo film della trilogia che Von Trier ha intenzione di chiudere per il 2008, le cui anticipazioni ci dicono che ci saranno entrambe, la vecchia Grace, Nicole Kidman, e la seconda Grace, Bryce Dallas Howard. Ma qualcosa ci dice che la deflagrazione sarà totale e definitiva.

Pippi

– continua domani –

In collaborazione con il Circolo del Cinema Uicc Cult Movies (Roma).

La democrazia? Lars Von Trier e M. Night Shyamalan, passando per i capelli rossi. (1)

Cari lettori, da oggi fino a sabato pubblicheremo una bella analisi fatta da una mia cara amica molto competente e stimata nel panorama cinematografico italiano che utilizzerà il “nome di battaglia” di Pippi per questo ed altri lavori che spero presto di pubblicare.

In collaborazione con il Circolo del Cinema Uicc Cult Movies (Roma).

La democrazia? Lars Von Trier e M. Night Shyamalan, passando per i capelli rossi.
Prima puntata – Dogville e la comunità soppressa. l’abuso di potere

(c) Zentropa

Cos’hanno a che vedere un regista danese, rigoroso, forse folle, ma “lucidamente folle”, autore, nel 1995, di un “manifesto per un nuovo, ascetico modo di fare cinema” ( Dogma 95, per chi ne vuole sapere di più: http://www.dogme95.dk o in lingua italiana: http://www.trax.it/dogma95.htm ); un altro regista, nato in India e naturalizzato in America, laureato in medicina ma di professione regista di (almeno due) film fantastici come metafora della società attuale, ed il nostro caro Tafanus, “persona molesta e petulante, noiosa” per sua stessa auto-definizione, “regista” anch’egli, in qualche modo, ma di una comunità virtuale? Hanno in comune l’interesse per la democrazia, per il concetto stesso di democrazia, attraverso la messa in scena di “comunità”, in cui quella più reale, per fortuna, è quella, pur virtuale, di questo blog. Ma da qui in poi i tre percorsi si separano, sino, in qualche caso, ad opporsi radicalmente, provo ad illustrarvi come, sperando di non trovarvi tutti addormentati quando avrò finito… Ma tanto, in fondo, le storie sono sempre servite, tra l’altro, ad accompagnare i bambini (e non solo) sulla soglia del sonno, anche se a nessun minore augurerei mai che venisse raccontata, prima di andare a dormire, una storia di quelle che scrive Lars Von Trier, potrebbe restare traumatizzato per il resto della sua esistenza, e magari, ad un certo punto, imbracciare un comodo kalshnikov e sparacchiare addosso a chi gli capita a tiro, senza distinzioni di etnia, sesso, età o colore politico. Ma paradossalmente anche questo, in fondo, suona decisamente egualitario…

Partiamo dall’inizio, da una cittadina chiamata Dogville (2002), siamo negli Stati Uniti, tra le Montagne Rocciose agli inizi degli Anni Trenta, ma non vi aspettate una colorata e fiorita cittadina da film americano delle majors, no no, siamo piuttosto nei dintorni di un’essenziale stilizzazione teatrale, le case, i giardini, tutta la città è disegnata a terra con righe bianche, gli attori si muovono e recitano in uno spazio vuoto, con solo qualche oggetto materiale, qualche suppellettile presente sulla scena. Teatro al cinema, quindi, o meglio, amplificazione del teatro attraverso l’occhio del cinema (e qui “Bazin ci cova”). In questa non proprio ridente cittadina, dunque, arriva una giovane donna in fuga, che chiede rifugio ed aiuto, deve nascondersi perchè dei gangster la stanno cercando. La comunità la accoglie, ma lei si dovrà sdebitare lavorando per loro. Passa il tempo, ma già il lavoro prestato diventa, di fatto, una forma di servitù; inoltre, legittimati dall’arrivo in paese prima dei gangster che la cercano, poi della polizia, che affigge un manifesto con la foto di Grace, ricercata, la gente muta progressivamente atteggiamento nei suoi confronti, iniziano le accuse, i pettegolezzi, i tradimenti dietro le spalle, le licenziosità degli uomini, ogni occasione è buona per accusarla, perlopiù gratuitamente, i sorrisi iniziali dei cittadini di Dogville divengono sempre più malevoli ghigni, le maschere ipocrite cadono svelando volti ringhianti. Un tentativo di fuga, con l’aiuto di un camionista diventa occasione per uno stupro indisturbato e si apre, per Grace, la porta dell’inferno della schiavitù. La fuggiasca viene riconsegnata alla città incattivita, dove viene legata ad una catena, proprio come un cane, per impedirle una nuova fuga, non solo, gli uomini di Dogville abusano di lei, poi viene processata pubblicamente ma non viene ascoltata dai suoi accusatori, sino al tradimento definitivo… il capovillaggio chiama i gangster che gli avevano lasciato un contatto durante la loro “visita” in città ed i gangster arrivano… ma, nessuno si aspetta a Dogville che in realtà chi sta arrivando altri non è che il padre di Grace e che la nostra eroina non verrà certo punita per cose che non ha mai commesso, mentre lo sarà, in una catarsi trionfale e totale per tutte le angherie da lei ingiustamente subite, l’intera comunità, rivelatasi di sfruttatori, ricattatori, egoisti, bugiardi, traditori, violenti, malevoli, meschini, ipocriti. Grace decide che nessuno, indiscriminatamente, merita di sopravvivere in quella “città di cani” (e l’esito del film si scopre, ora, sin dalle premesse, dallo titolo stesso), i cani rabbiosi, in genere, vengono abbattuti, senza grandi scrupoli di coscienza. Non è una vendetta, quella di Grace, ma la cancellazione di una forma inutile di democrazia, di falsa democrazia: questa non ci è piaciuta, vediamo la prossima. Riportiamo a vergine il terreno, estirpiamo queste erbacce velenose, guarda là, c’è ancora una giovane malapianta che spunta… distruggila per favore. Se è per questo non è nemmeno Grace, ma Von Trier, ad aver detto “no, questa non va bene di comunità, strappiamo il foglio e ricominciamo”. Era solo una piccola, tipica comunità americana, “democratica”, di bianchi. Von Trier, senza mai essere andato in America (e mai ci andrà perché non prende aerei né navi) ci sta dicendo: ecco a voi la democrazia americana, ed ecco a voi quello che vale, e quello che si merita. Non è tanto peregrino trasporre nelle nostre italiche, piccole e “democratiche” comunità (che siano esse città, paesini, quartieri, rioni o borgate), questo atteggiamento verso il diverso, l’estraneo, il nuovo, specie se lo “straniero” si trova in condizione di dover chiedere aiuto, rifugio, se ha bisogno di essere protetto, nascosto. E non è peregrino pensare che il vero pericolo è la mano che solo apparentemente ti viene tesa per dare aiuto, che diviene esercizio di un potere corrotto ed ancora peggiore, se possibile, di quella dalla quale eri fuggito. E la nostra Grace dai capelli rossi non è un caso, i rossi di capelli sono sempre stati considerati un po’ strani, un po’ particolari, nella tradizione popolare sono cattivi per natura (il verghiano Rosso Malpelo, resta a sancirlo ad imperitura memoria). Certo, è attraverso il potere, quello dei soldi nel film, quello della macchina da presa fuori dal film, che si ottiene ciò che si vuole, qualunque cosa si voglia, è il deus ex machina a decidere le sorti, giuste o sbagliate che siano, ma lasciamo le ultime parole in merito a Lars Von Trier: ” L’America è buon argomento perché perché una gran parte della Danimarca ha a che fare con gli Stati Uniti, tutti i negozi, ma non solo quelli. Non lo dico perché non mi piace McDonalds, quella è un’altra storia. Noi occidentali siamo tutti sotto l’influenza degli Stati Uniti, una cattiva influenza anche perché Mr Bush è uno stronzo e fa cose completamente idiote. Il 60% del mio cervello è americano, il 60% della mia vita è americana, insomma, sono un americano ma non posso votare, non posso cambiare nulla. L’unica cosa che posso fare è fare film!…. Film pessimistici e sarcastici “. (da http://www.cinemadelsilenzio.it/)

Credo che perdonerò, almeno io, non so voi, Lars Von Trier, per aver messo in scena questo eccidio.

Pippi

Cineforum: FESTEN – DOGMA 01 (Martedì 3 luglio)

Martedì 3 luglio
21.30 Teatro Charitas di Chiavari, via Marana 8
SPERIM3NTA : Rassegna di arte visiva in movimento – terza edizione –

 

DOGMA 95 # 1: FESTEN – Festa in famiglia
Diretto da Thomas Vinterberg
Danimarca 1998, 106 minuti

Cannes 1998: Gran Premio della Giuria

Una ricca famiglia danese festeggia il sessantesimo compleanno del patriarca. Ogni cosa è
perfetta, ma durante il brindisi tutto va a rotoli. Il primogenito parla per la prima volta di sua sorella morta
suicida un anno prima e accusa il padre di averla molestata e quindi spinta al terribile gesto.
È l’inizio della fine.

Thomas Vinterberg, seguace del “Dogma ’95”, in questo film usa alla perfezione le indicazioni
del manifesto sottoscritto insieme a Lars Von Trier, rappresentando la storia attraverso immagini che
sembrano tratte da inquietanti filmini di famiglia.
La vicenda si scioglie come in uno psicodramma, i protagonisti rivivono i loro peggiori incubi, accresciuti da anni di ipocrisie e menzogne. La macchina a mano si insinua come un coltello tra i reconditi segreti di
famiglia e ci conduce al centro della scena. Allo stesso tempo, però, l’uso di inquadrature sghembe o fuori fuoco danno una sensazione straniante, di distacco degna del teatro di Brecht.
Gran Premio della Giuria a Cannes nel 1998, Festen è un film sul dolore e sui traumi che la memoria
custodisce e che, tuttavia, non cancella, solcando in maniera indelebile l’identità di ognuno di noi. La festa in famiglia come metafora della catarsi, come luogo non-luogo in cui tutto accade e tutto ritorna.

" The Kingdom – Riget " di Lars Von Trier e Morten Arnfred (2

" The Kingdom – Riget " di Lars Von Trier e Morten Arnfred

Recensione di Marina Pianu

Seconda parte

 

senza scomodare il sogno di jung, la storia si presta ad una interpretazione psicologica, per cui gli archivi storici (la memoria dell’ospedale), molto piu’ accessibili di quanto non dovrebbe consentire il sofisticato sistema d’allarme, offrono poca resistenza a chi cerca cio’ che non dovrebbe trovare, mentre sembrerebbero ostacolare la ricerca di materiale utile al bene. il direttore generale, specie di "io" ospedaliero, fa fatica a tenere sotto controllo reparti e personale, che arrivano a volerlo eliminare per poter con piu’ agio proseguire le loro scorribande (contro il male, contro il bene). e che razza di super-io impertinente e arrogante e’ il dr. helmer, simpaticissimo nella sua totale antipatia, sempre piu’ preso nelle sue conversazioni con la tazza del cesso (ritorno allo stadio anale?) in un tentativo di arginare i crescenti assalti di un "id" dispettosetto (la verita’ sull’operazione a mona, la fidanzata appiccicosa, gli attentati alla sua volvo, l’ufficiale giudiziario, la moglie con i sette figli…).

nel contrasto tra bene e male i confini tra i due reami si confondono alternandosi i ruoli: cio’ che sembra male ("fratellino" durante la gravidanza) diventa bene (il "messia" che gli spiriti dell’ospedale attendevano), e il bene (il corpo medico) diventa male (camilla, mogge, lo stesso krogshøj diventato malefico zombie); chi mira a fare il bene (christian) finisce per fare il male (scontro finale con mogge e sanne), e la madre, per un bene piu’ grande, deve uccidere il figlio!

in questo giochino dove tutto e’ ammissibile e nulla e’ scontato, molti sono gli interrogativi che restano sospesi (e che forse, neppure se von trier avesse potuto terminare il progetto, avrebbero trovato spiegazione), come l’insinuante dubbio se l’ambulanza fantasma della prima serie non sia una ricorrenza dell’ambulanza, pure dotata di vetri imbiancati, guidata da christian nel gran finale.

insomma, lars von trier, il suo socio di sceneggiatura, niels vørsel, e co-regista, morten arnfred, tra le tante cose con cui ci hanno voluto intrattenere, hanno anche voluto ricordarci che non dobbiamo fidarci delle apparenze… e che, in un certo senso, il macrocosmo in cui viviamo rispecchia il microcosmo della nostra complessa e buffissima anima.

nota (s)conclusiva: date un’occhiata al "voto di castita’" del gruppo cinematico di lars e soci (dobme95): http://www.dogme95.dk/the_vow/vow.html

buone prossime visioni… nel bene (crocetta) e nel male (corna)! :))

il nuovo ballo per l’estate per far bella figura nelle discoteche (in ogni caso un’ottima occasione per risentire l’irresistibile sigla iniziale):
http://www.youtube.com/watch?v=NicbWIOcK9c

" The Kingdom – Riget " di Lars Von Trier e Morten Arnfred (1)

" The Kingdom – Riget " di Lars Von Trier e Morten Arnfred

Recensione di Marina Pianu

Prima parte

 

The Kingdom Hospital rests on ancient marshland where the bleaching ponds once lay. Here the bleachers moistened their great spans of cloth. The steam evaporating from the wet cloth shrouded the place in permanent fog. Centuries later the hospital was built here. The bleachers gave way to doctors and researchers, the best brains in the nation and the most perfect technology. To crown their work they called the hospital "The Kingdom." Now life was to be charted – and ignorance and superstition, never to shake the bastions of science again. Perhaps their arrogance became too pronounced, and their persistent denial of the spiritual. For it is as if the cold and damp have returned. Tiny signs of fatigue are appearing in the solid, modern edifice.
No living person knows it yet, but the gateway to the Kingdom is opening once again.
————–

anche se il progetto resta interrotto (sob), si possono finalmente tirare un po’ di somme (scansatevi!).

tanto per iniziare, noto che lars von trier ha questa dote speciale di riuscire a districarsi tra i generi filmici, con pieno possesso dei linguaggi specifici, ma volutamente non riesce a restare rigorosamente entro i
parametri senza svirgolare nell’altrove. "riget", "il regno", fonde un lieve horror (non si salta sulla poltrona) con la fiction ospedaliera ("e.r." e’ il primo e piu’ recente esempio che sorge alla mente, ma non l’unico; prima ancora, infatti, c’e’ stato "st. elsewhere", "santo altrove", appunto), costruito su una trama ai limiti del feuilleton e tenuto insieme da una piacevole e gustosa ironia ai limiti del farsesco. non e’ un caso che ho ripetuto "ai limiti": von trier quello fa, gioca con i limiti, li spinge per vedere dove lo portano, e li supera senza mai esagerare, senza mai scadere nel troppo.

si gioca tra realta’ e finzione dove si esige la complicita’ dello spettatore. i commenti finali dell’autore puntano ogni volta a riportare la "morale" della favola nella vita di tutti i giorni, sovvertendo i valori comuni,
facendo scricchiolare la solidita’ precaria della nostra esistenza, il tutto con quel sorrisino sadico da schiaffi. "voi pensate di stare tranquilli perche’ questa e’ pura fantasia? pensate di poter dormire notti serene solo perche’ queste follie sono sullo schermo? al posto vostro io non ne sarei cosi’ sicuro. buona serata e buoni incubi a tutti… nel bene (crocetta) e nel male (corna)."

tutto serve a fornire una chiave di lettura (fallace) e a fuorviare la benevolenza e creduloneria dello spettatore. ci sono gli intermezzi da prendere sempre in considerazione, perche’, a torto o a ragione, ci
forniscono una lettura "tra le righe" degli eventi appena trascorsi o a venire. i due lavapiatti (per il ruolo sono stati scelti due attori con la sindrome di down, ovvero diversi, con qualcosa in meno degli altri e qualcosa in piu’) ricoprono qui la parte di coro, di veggenti, di angeli forse dell’ospedale. gli eventi caotici e orrificanti non li coinvolgono, e mentre di sopra tutto va a "carte 48", per loro la vita prosegue serena linearmente diretta verso un lieto fine. ma sono davvero da prendere in considerazione?

dentro questi due "quadri" (coro e autore), si svolgono le esilaranti e assurde vicende di un mondo diviso tra scienza materialista (ai limiti del banale) e mondo soprannaturale (ai limiti dell’inverosimile). e’ il simbolo stesso dell’animo umano, in continua lotta tra razionalita’ e spiritualita’, tra aderenza pedissequa alle regole (regolarmente violate) e interpretazione (extra)sensoriale della vita. occulto e scienza si intersecano, si scambiano ruoli e poteri, e spesso ci domandiamo se non sia piu’ razionale la signora
drusse, una bravissima miss marple dell’occulto, o i medici che, con le loro iniziazioni ridicole e rituali fantasiosi, non riescono a tenere a freno le "forze del male". e’ vero che i medici combattono l’occulto, ma come entita’ esistente e non fittizia (v. reazione di dr. bondo dopo che il chirurgo voodoo gli ha infilato una mano nella pancia: "il mio sarcoma!"). a chi scrive (e forse non solo a lei), la signora drusse, dotata di figlio degenere, appare molto piu’ simpatica e logica di qualunque barone della scienza medica.

… continua domani …

Cineforum : THE KINGDOM – IL REGNO (1)

Martedì 15 maggio
21.30 Teatro Charitas di Chiavari, via Marana 8
FRAMMENTI : Schegge di Cinema – seconda edizione –

IN ESCLUSIVA LA VERSIONE INTEGRALE DEL CAPOLAVORO :

THE KINGDOM – IL REGNO
Diretto da Lars Von Trier e Morten Arnfred
Danimarca 1994

PRIMA PARTE

Il suolo sotto l’ospedale del Regno, anticamente era una palude, i tintori viimmergevano i loro grandi teli, che poi stendevano per la sbiancatura. L’umidità avvolgeva tutto in una nebbia eterna. Poi venne costruito
l’ospedale del Regno, i tintori lasciarono il posto a medici e ricercatori, ageni della scienza e della tecnologia, che per coronare il loro lavoro, chiamarono questo luogo il Regno. Avrebbero spiegato la vita, l’ignoranza non avrebbe più scosso i bastioni della scienza. Forse la loro crescente arroganza li portò a negare la spiritualità e adesso è come se il freddo e l’umidità fossero tornati. Nessun essere vivente ancora lo sa, ma la porta del Regno sta riaprendosi.

Ricordiamo (per chi non è ancora socio) che la tessera non può essere attivata la sera di proiezione con il biglietto d’ingresso. Si prega pertanto di tesserarsi presso :

Videoteca Wonder Video Le Cinema, Viale Kasman 3 (Chiavari).

Zucchero Amaro, Via Entella 205 (Chiavari).