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“Solo Dio perdona – Only God forgives” di Nicholas Winding Refn (Cannes 2013)

Nicholas Winding Refn gioca con il pubblico e dopo la struttura classica di “Drive” decide di disorientare lo spettatore con un film che sembra ma non è quello che lo spettatore desidera. Non ci sono dubbi che Refn abbia avuto un coraggio immenso a proporsi a Cannes con il perfetto “Anti-Drive”, l’autore usa i canoni del cinema di genere americano per nascondere una tragedia psicologica con evidenti echi dalla mitologia greca e dalle storie tradizionali religiose orientali. Non è certamente un caso che Refn citi e renda omaggio proprio a Jodorowsky che ha fatto della burla allo spettatore e della manipolazione dei generi una vera arte negli anni 70′. La storia comincia in una palestra di thai chi tailandese, lo sport nazionale ed anche il principale genere di consumo cinematografico di questo Paese. La palestra è scura, filtra una luce a tratti di un rosso violento, solo il palco è illuminato a giorno e sullo sfondo un dipinto gigante e di rosso rubino descrive il demone Kala Kirtimukha; che secondo la tradizione custodisce le porte di tutti i templi di Shiva. Il luogo dove gli uomini lottano e sanguinano è quindi alle soglie del divino della tradizione orientale. Già solo questo è un chiaro messaggio allo spettatore, l’invito a leggere fra le righe e spostarsi dai canoni del cinema di genere per decodificare il film da un punto di vista diverso. Tutta la storia ruota sul complesso di Edipo, sulla disperata ricerca di un uomo dell’amore di una madre spietata ed assassina, su un’uomo che recide arti e corpi con la sua spada infallibile e che raffigura la castrazione di un padre verso un figlio, il tutto pienamente occultato da un’apparente storia di gangster e vendetta. La chiave di volta della storia è l’immagine lacerante del protagonista che recide il ventre della madre, assassinata poco prima dal suo nemico, per potervi affondare il braccio (quel braccio dei pugni e della disperata violenza che permea la storia) in un macabro tentativo di ritorno al luogo embrionale. Refn gira un film rarefatto, dove ci sono più simboli che parole, dove i canoni vengono stravolti e manipolati per una sorta di sogno ad occhi aperti, e dove alla fine ci si trova davanti a qualcosa di inaspettato e maturo, profondo ma criptico che darà fastidio più che altro a chi si aspettava un rassicurante film di violenza spettacolare.

Daniele Clementi

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