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VENEZIA 2007: " Valzer " di Salvatore Maira

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2007
 
(c) Biennale di Venezia
 
" La tigre di Venezia "
a cura di Elisa Lubiano
" Valzer " di Salvatore Maira (2007)
Il film balla sulle note di un valzer, quando scrivo “balla” intendo proprio il verbo “ballare” in quanto realizzato in un solo piano sequenza alterna le vicende di una giovane donna con quelle del mondo del calcio per confluire nello stesso punto. Ai piani superiori del grande albergo di lusso un gruppo di dirigenti cerca di trovare il modo di controllare le menti dei “critici spettatori” attraverso il pallone e la tv. Lo sport ha perso la sua vera essenza per diventare un mezzo. Un famoso studio antropologico (di cui non ricordo assolutamente l’autore, aggiornerò) rivela proprio la potenzialità del calcio di suscitare negli spettatori empatia perchè la partita viene giocata con potenzialità pari tra le due squadre avendo lo stesso numero di giocatori, gli stessi strumenti… esattamente come si suppone sia “giocata” la vita in uno stato democratico, le stesse opportunità per tutta la popolazione. Ai piani inferiori, quelli riservati al personale dell’albergo, invece si srotola la triste storia di una ragazza disposta a tutto pur di arrivare nel luccicante mondo della televisione, della celebrità. Lucia lavora in questo grande albergo frequentato dalla gente “bene”, a mano a mano che passa il tempo lei viene sempre più affascinata dal modo di vivere dei clienti: le feste, i bei vestiti, la chirurgia plastica e il denaro diventano i dubbi obbiettivi da raggiungere per la giovane dal passato difficile. I ricchi avventori non si fanno scrupoli ad approfittare dell’ingenuità della ragazza ne lei ad accettare il loro denaro. Le due storie o piani del film si incontrano nel cinismo. Un giorno di Lucia non se ne saprà più nulla, o meglio non se ne vorrà sapere per una questione di pudore nei confronti del padre che è stato scarcerato e vuole rivedere la figlia. Un bel film che mette l’accento sulla perdita di valori della nostra generazione abbagliata dal mito della celebrità e alla ricerca del lavoro e del guadagno facile. L’essere nati nell’epoca della tecnologia ci porta inesorabilmente a pensare che siamo chiamati a esserci ( nella televisione, su internet,..). Nascere con la televisione a casa ci spinge a farla, è un meccanismo inconscio, molti di noi esprimono questo desiderio secondo i propri limiti e i dirigenti del piano di sopra questo lo sanno bene.
Il piano sequenza è interrotto da alcuni flashback girati però con la stessa tecnica così non perde il vorticoso ritmo ma ne alleggerisce i tratti. Data la scelta stilistica il lungometraggio digitale può lasciare perplessi per alcune battute pronunciate senza la giusta intonazione, per fortuna questo si verifica solo nei primi minuti e sottolinea la bravura di Maurizio Micheli e di molti altri attori. Quello che può essere considerata una stonatura è la sorprendente loquacità e ricercatezza dei termini dei personaggi: lucia, prostituta, poco istruita e suo padre ex galeotto dimostrano una proprietà di linguaggio da fare invidia… Neanche un congiuntivo sbagliato!

VENEZIA 2007: " Man from Plains " di Jonathan Demme – 2

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2007
(c) Biennale di Venezia
 

 

” Man from Plains ” di Jonathan Demme

Recensione di Daniele Clementi

 

 
Guardando questo splendido documentario di Jonathan Demme viene subito in mente il lavoro fatto da Michael Moore negli ultimi due film (Fahrenheit e Sicko). Ma il film di Demme non evoca Moore per similitudini bensì per differenze. Questo film documenta la tournè di Jimmy Carter negli USA per la presentazione del suo libro “Palestine: peace or apartheid” narrando con sconcertante equilibrio e cinico realismo la caduta dei valori della libera informazione in America del Nord. Anzi forse è più appropriato dire che il film denuncia l’ignoranza e la bassezza dell’informazione americana contemporanea che non ha bisogno di essere prigioniera in quanto troppo bassa culturalmente per essere pericolosa. In fondo non è necessario mettere il bavaglio all’ottusità poichè si censura da sola nella sua naturale insipienza ed incapacità di leggere ed interpretare ciò che la circonda. Ci troviamo così di fronte ad un vecchio politico di altri tempi, maturo e responsabile, umanamente capace di mettersi nei panni delle persone che incontra e di ascoltare anche chi non è capace per arroganza, per ignoranza o per disposizioni del “padrone” di ascoltare lui. Ci viene in mente il valore di una politica che va scomparendo nel mondo, ci si sente giovani studenti di fronte ad un vecchio così serenamente convinto della sua vecchia scuola da dimostrare una disarmante modernità se non addirittura l’esempio per la costruzione di una politica più evoluta. Questo è il principio che emerge da un film che non odia ne condanna gli israeliani ma semplicemente fa un passo umano tanto alto quanto elementare: “La ragione non può essere da una parte sola”. Come abbiamo potuto ridurci a non comprendere un concetto così fondamentale della civiltà e della democrazia ? Che razza di classe politica occidentale si è formata in questi ultimi anni ? Che cosa è successo alla capacità di leggere ed interpretare le parole del nostro prossimo ? Carter, e con lui Demme, ci ricordano che la nobiltà della politica consiste nel sapere ascoltare, nel saper ricordare e nel rispettare sempre e comunque il tuo interlocutore perchè il bene primario non dovrebbe essere la superiorità di uno verso l’altro ma il benessere collettivo. Il film più bello della mostra è un film sull’americano più “importante” che abbia potuto ascoltare in questi ultimi dieci anni. Ma allora che cosa c’entra il mio inizio con Moore? “Big Mike” è un grande polemista e prende a sberle il sempliciotto americano con un talento che hanno pochi, questo è il motivo per cui le sue violente ma geniali provocazioni colpiscono l’opinione pubblica americana. Ma il film di Demme, che non sarà capito o amato come gli ultimi Moore, è più alto nella forma e nella composizione del messaggio così come lo è il lavoro di Carter per il medio oriente, qualcosa che non funzionerà come “Sicko” perchè più che provocare insegna (nel senso migliore del termine) ad una società che non vuole imparare ma solo essere bastonata (e qui si spiega la durezza degli ultimi film di Moore). Un grande film bello e forse destinato ad essere incompreso come il soggetto di cui parla. Jimmy Carter si rivela l’uomo che noi europei vorremmo al comando degli Stati Uniti D’America.
 

VENEZIA 2007: " Man from Plains " di Jonathan Demme

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2007
(c) Biennale di Venezia
Note da VENEZIA
di Antonella Mancini
 

 

” Man from Plains ” di Jonathan Demme

 

 
Per ben due ore esatte lo schermo Ë occupato dalla figura di Jimmy Carter, ora canuto signore intorno all’ottantina ma in precedenza 39° presidente degli Stati Uniti, chiacchierato e ingiustamente disprezzato dagli Americani, anche di sinistra, che poi si sono dovuti godere per otto anni Nixon. Quest’ultimo stimato dai meno moralisti (o più cinici) Europei malgrado Watergate, il primo  riconosciuto infine da tutti come premio Nobel per la Pace per aver indotto Israele ed Egitto a firmare una pace che, malgrado gli assassinii di Sadat e di Rabin dagli opposti fondamentalismi, dura tuttora. Ma erano altri tempi: negli anni ‘60 gli Americani non erano i signori della guerra e l’incubo che sono diventati (e questo lo dice anche Carter nel film). In queste due ore il tipo in questione rilascia almeno una ventina di interviste sullo stesso argomento, il  suo recentissimo e ancor pi_ chiacchierato libro Palestina:Peace Not Apartheid. Per la campagna promozionale in Usa, e in giro per il mondo, vediamo l’infaticabile signore salire e scendere dagli aerei (sempre portandosi democraticamente di persona il trolley, nonostante abbia al seguito baldi giovanotti e giovanotte), firmare migliaia di dediche, discorrere al telefono per fissare nuovi incontri, inframezzare bucolici soggiorni nelle sue terre con l’adorata moglie (60 anni di felice matrimonio), andando in bicicletta o illustrando la sua visione profondamente cristiana dei rapporti tra i popoli e tra gli uomini. Non manca la madre (di Carter), una vera “mommy” americana e le lacrime del figlio al solo nominarla. Ce ne sarebbe abbastanza per stare alla larga da un siffatto film-documentario. Invece le due ore volano e lo spettatore ne rimane avvinto. Non aggiungo altro, salvo osservare che un regista il quale riesce a ottenere un simile risultato e una standing ovation in sala di parecchi minuti Ë un grande regista.

VENEZIA 2007: " Chun – nyun – hack (Beyond the years) " di Im Kwon Taek

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2007
(c) Biennale di Venezia
Note da VENEZIA
di Antonella Mancini
 

 

” Chun – nyun – hack (Beyond the years) ” di Im Kwon Taek

 

 
Passato in sordina e ritenuto non degno di menzione da parte dei media – per esempio Repubblica neanche lo cita – questo film coreano avrebbe invece tutti i crismi per un Leone, nel bene e nel male. Ma Ë presentato fuori concorso, nella sezione “Maestri”; tuttavia, fosse solo per questo, anche Le ragioni dell’aragosta della Guzzanti  non Ë in concorso eppure ha riempito le pagine dei giornali. Kwon Taek Ë da oltre dieci anni il regista pi_ riconosciuto dell’emergente cinema coreano, e sia Cannes che Berlino gli hanno tributato premi di rilievo. Qual Ë il meccanismo diabolico che decreta il successo o il flop di un film? PerchÈ i giornalisti non fanno un po’ di ricerche curiosando nei film che forse nessuno vedr‡ mai sugli schermi? Va bene che i (tele)giornali sono mantenuti dalla pubblicit‡, ma un po’ anche da noi che li compriamo e paghiamo la RAI.
Chun-nyun-hack racconta una storia d’amore, una “storia” nel vero senso del termine, che si dipana lungo l’arco di una trentina d’anni. Sullo sfondo, le trasformazioni della Corea, mostrate in modo discreto e soft. Storia dell’amore di un fratello per la sorella adottiva, di questa sorella per il canto tradizionale (Pansori) cui dedica la vita, di un compagno d’infanzia ancora per lei e del padre adottivo per il suo canto, al punto che forse arriva a renderla cieca per meglio affinarne l’udito e la voce. Tutti amano e tutti con tempi e modi sbagliati, laddove il regista ci mostra come sia facile costruire la propria infelicit‡. E’ un film struggente, che tocca le corde pi_ intime dei nostri sentimenti senza cedere a sbavature e tanto pi_ ciÚ Ë notevole in quanto gli eventi, i modi, gli stili di ciÚ che si svolge davanti agli occhi di noi spettatori occidentali Ë quanto di pi_ distante ci possa essere dalla nostra cultura e dalla nostra esperienza di vita. Il che ci d‡ la misura di come Kwon Taek sia andato al di l‡ della storia per trasmetterci un messaggio di umanit‡ capace di parlare a tutti. Dal punto di vista formale il film Ë ineccepibile: nelle inquadrature, nel ritmo, nella calibratura delle scene. Alla fine, piacciono persino le improponibili sonorit‡ coreane della protagonista al punto che potremmo correre a cercarne l’inesistente CD per risentirle.

VENEZIA 2007: " Gruz 200 " di Alexey Balabanov

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2007
(c) Biennale di Venezia
” La tigre di Venezia “
a cura di Elisa Lubbiano e Andrea Cecchini
 

 

” Gruz 200 ” di Alexey Balabanov

 

 

Il titolo “Gruz 200” indica in gergo militare l’arrivo dei soldati deceduti in Afghanistan. La caduta dell’Unione Sovietica viene raccontata dal regista nell’anno immaginato da George Orwell per il suo romanzo più famoso. Intorno a questa storia vengono costruiti dei personaggi marcatamente controversi che sottolineano la caduta di valori di quegli anni. Il professore di ateismo scientifico che vorrebbe battezzarsi, un uomo violento con la moglie che schiavizza un vietnamita ma sogna il paradiso terrestre, un colonnello che vede di buon occhio chi lavora all’estero stufo della crescente povertà del decaduto esercito sovietico, i giovani che vanno a ballare in discoteca e un poliziotto che sembra uscito da un film di Kaurismaki che commette i più infami crimini su una giovane ragazza, figlia di un segretario di partito.

 

VENEZIA 2007: " Manda bi – Le mandat " di Sembène Ousmane

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2007
(c) Biennale di Venezia
” La tigre di Venezia “
a cura di Elisa Lubbiano
 

 

” Manda bi – Le mandat ” di Sembène Ousmane

 

 

 

Venezia propone alcuni film del regista da poco scomparso Sembène Ousmane. L’attenzione che dedica il regista alla vita del popolo africano, come abbiamo avuto modo di scoprire tempo fa al cineclub, svela la realtà con amara dolcezza. Manda bi contrappone la ridondanza di messaggi, in particolare scritti, dei paesi sviluppati ai paesi poveri dove si può. Vivere e morire analfabeti, senza documento d’identità e sapendo solo di essere nati nel XX° secolo. La storia coglie lo spunto proprio dalla incompatibilità tra questi due mondi sviluppando il piccolo dramma che si consuma in Africa nel mo mento in cui arriva un vaglia da Parigi. Il film solleva il problema dell’analfabetismo dal quale ne consegue la corruzione e la truffa portando il protagonista, già in difficoltà economiche, a indebitarsi ulteriormente nella speranza di riscuotere il vaglia. “In Europa un migrante non diventa per forza un mendicante (come dicono alcuni) se ha voglia di darsi da fare può tranquillamente riuscire a costruirsi un futuro”, per gli africani invece la sfida è il presente per finire in mezzo alla strada può bastare avere la necessità di riscuotere un vaglia. Lo spaccato antropologico raccontato dal regista rende l’africa filmata viva e pulsante, i mezzi semplici adottati da Ousmane rendono grezza ma consistente la pellicola, un luogo immaginario ideale in cui immergersi.

 

VENEZIA 2007: " Nightwatching " di Peter Greenaway

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2007
(c) Biennale di Venezia
  

 

” Nightwatching ” di Peter Greenaway

Recensione di Daniele Clementi

 

 

 

Il dipinto di Rembrant “Night Watch” fu commissionato dal Capitano Barining Cocq dei moschettieri olandesi e da 17 membri della stessa guardia, sappiamo che il dipinto aveva uno scopo formale e serviva per immortalare il Capitano Cocq ed il suo “entourage” per i posteri. Quello che non sappiamo (e che spesso i libri non ci raccontano) è che il quadro di Rembrant è in realtà la denuncia di un omicidio oltre che una lista dettagliata dei peccati commessi dai soggetti dell’opera. proprio per questo motivo l’artista venne emarginato ed infine rovinato dopo la realizzazione di questo dipinto così pericoloso e nel contempo così coraggioso. Greenaway rende avvincente la lunga storia della gestazione del dipinto intersecando la vita dell’artista e gli intrighi della borghesia olandese. Lo stile unico del regista consente al film di essere l’espressione filmata dei giochi di luce delle opere del pittore perfettamente incastonati in una struttura scenica che tradisce ,non senza compiacimento, quella natura fittizia ed irreale tipica della costruzione scenografica teatrale. Si sente la mancanza dell’apporto artistico di Michael Nyman, orecchio “visivo” del cinema di Greenaway oramai “amputatosi” dalla testa del regista per cercare un’autonomia espressiva che ha prodotto solo film da cassetta e qualche kolossal di Hollywood (becera volgarità se paragonati alla fase di mimesi con il regista inglese). Greenaway non tradisce se stesso e nella sua coerenza iconografica confeziona un film che vive come unico forte difetto proprio l’essere così “convezionalmente” un film di Peter Greenaway. Si sente arroganza nel modo con cui Greenaway non evolve stilisticamente, come se il regista non ritenesse di avere più nulla da sperimentare o da ricercare, come se l’autore in qualche modo si reputasse perfetto nella sua forma espressiva al punto di non dover tentare più alcuna variazione stilistica o visiva. Nonostante la perfetta composizione ed una rappresentazione drammatica ineccepibile c’è poca reale creatività in questo film, una scintilla spenta confezionata in una scatole dall’eleganza e dalla complessità estetica disarmante. Greenaway soddisfa ma annoia, nonostante la storia, nonostante la qualità intellettuale dell’opera e nonostante l’affetto e la disponibilità di chi ne ha seguito la carriera. In attesa di un regista che riscopra se stesso ci compiaciamo che almeno la matematica del suo linguaggio sia rimasta illesa.

 

 

CREDITI
Regia: Peter Greenaway
Sceneggiatura: Peter Greenaway
Uscita ufficiale nel paese d’origine: 2007
Martin Freeman …Rembrandt van Rijn
Emily Holmes …Hendrickje
Michael Teigen … Carel Fabritius
Anna Antonowicz …  Catharina
Eva Birthistle …  Saskia
Christopher Britton …  Rombout Kemp
Agata Buzek …  Titia Uylenburgh
Michael Culkin …  Herman Wormskerck
Harry Ferrier …  Carl Hasselburg
Jonathan Holmes …  Ferdinand Bol
Toby Jones …  Gerard Dou
Adam Kotz …  Willem van Ruytenburgh
Adrian Lukis …  Frans Banning Cocq
Maciej Marczewski …  Clem
Jodhi May …  Geertje
Richard McCabe …  Bloefeldt
Kevin McNulty …  Engelen
Rafal Mohr …  Floris
Fiona O’Shaughnessy …  Marita
Krzysztof Pieczynski …  Jacob de Roy
Gerard Plunkett …  Engelan
Nathalie Press …  Marieke
Andrzej Seweryn …  Piers Hasselburg
Jochum ten Haaf …  Jongkind
Hugh Thomas …  Jacob Jorisz
Matthew Walker …  Matthias van der Meulen
Jonathan Young …  Visscher
Maciej Zakoscielny …  Egremont

Direttore della fotografia: Reinier van Brummelen   
Musica: Wlodek Pawlik
Montaggio: Karen Porter
 

 

VENEZIA 2007: " Small Gods " di Dimitri Karakatsanis

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2007
(c) Biennale di Venezia
” La tigre di Venezia “
a cura di Elisa Lubbiano
 

 

” Small Gods ” di Dimitri Karakatsanis

 

 

 

La settimana  della critica presenta questo giovane autore al quale si può rimproverare qualche incertezza scenografica dovuta ad alcuni errori ed alla risposta dei soliti clichè. In sostanza il film è frizzante e originale. La trama è fitta, contorta, passionale, sviscera sentimenti oscuri resi ancor più intensi grazie all’uso di immagini di paesaggi angoscianti: cieli cupi e lande desolate, forse questo non sarà un film consacrato alla storia del cinema ma in un festival sottotono ci fa piacere indicare proprio questo regista che nonostante la sua inesperienza osa allestendo un film sui giovani sbandati con un linguaggio iconico comprensibile alle due generazioni.

 

VENEZIA 2007: " REC " di Jaume Balaguerò e Paco Plaza

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2007
(c) Biennale di Venezia
” La tigre di Venezia “
a cura di Elisa Lubbiano

” REC ” di Jaume Balaguerò e Paco Plaza

Oggi giorno viene sempre più utilizzata l’espressione “mordi e fuggi”: dalla vacanza al pasto la vita superficiale e frettolosa moderna si identifica in questo slogan. Anche il film “REC” è un mordi e fuggi per lo spettatore che lo ingurgita per poi fuggire disgustato dalla sala. Questo fas food di carne umana ambientato in un condominio dove si aggirano ridicoli zombie, una troupe televisiva ed una squadra di pompieri non ha nulla di originale o meglio, se vogliamo restare in ambito culinario, di gustoso.
Tutto ciò che viene proposto è già stato visto: dall’ambientazione molto simile al film presentato dallo stesso regista lo scorso anno, alle inquadrature stile “Blair witch project” per concludere con il personaggio horror  più alla moda in questo momento: lo zombie !
Ho cercato di sforzarmi a trovare una metafora nel film, un messaggio nascosto ma posso ammettere di non averne trovato di calzanti, solo supposizioni prese per i capelli. Chiedere a chi è piaciuta questa pellicola è una delle cose più imbarazzanti che abbia mai fatto, le risposte sono vuote e prive di logica.
Le risate in sala si sono sprecate, se avessimo chiuso gli occhi per qualche istante avremmo potuto pensare di essere ad una proiezione di Ciprì e Maresco … forse il vero horror è questo !
Mi dispiace molto non aver urlato come mio solito (vedi serata su Mario Bava al cineclub) alla proiezione in presenza del regista, chisà magari mi avrebbe offerto una cena calda che dopo giorni di panini e insalate mi avrebbe rigenerato.

VENEZIA 2007: " Le ragioni dell’aragosta " di Sabina Guzzanti

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2007
(c) Biennale di Venezia
Note da VENEZIA
di Antonella Mancini
 

 

” Le ragioni dell’aragosta ” di Sabina Guzzanti

Cara Sabina,
ho appena finito di vedere il tuo film, nella proiezione riservata ai plebei, fra i quali io mi colloco, cinematograficamente parlando. Lo dico perché i giornalisti veri lo hanno potuto vedere ieri e scriverci sopra fiumi di robe che oggi tutti hanno potuto leggere. Io ancora no, anchè perché il tuo film non lo avevo scelto e ci sono finita per caso. Dubito dunque di avere qualcosa di significativo da aggiungere, ma a un paio di cose non mi va di rinunciare. La prima è la sensazione che il tuo, più che un film, sia un’installazione, come se ne possono ammirare proprio adesso, sparse un po’ovunque in città in concomitanza con la Biennale d’Arte. Con questo non voglio dire che il film manchi di contenuti, perché certe installazioni, come quella di Fabre , di cose da dire ne hanno molte di più di tanti film che piacciono ai cinefili. Di primo acchito si potrebbe pensare che anche tu sia scivolata nel documentario – a ben vedere tu “documenti” cosa accade dietro le quinte di uno spettacolo – peraltro in tendenza con la Mostra di quest’anno. Ma non è così. Mi spiego, tu “usi” ciò che si svolge dietro le quinte di uno show per fare di fatto uno show: il tuo è uno spettacolo nello spettacolo (che dice poi molte altre cose, nel merito delle quali non entro), dove ogni attore contribuisce a modellare un pezzo dell’installazione. E ora la seconda cosa, e bada che non mi interrogo se il tuo lavoro mi piaccia o no: non lo so. Sinceramente non lo so e forse non mi interessa nemmeno saperlo, ma una cosa so per certo: l’ammirazione che mi suscita la tua intelligenza, il modo col quale usi il cervello. A dirla tutta del tuo film non me ne importa molto, ma è senz’altro un film molto molto intelligente. Il che non è da tutti.

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