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“Boys in the trees” di Nicholas Verso, Australia 2016 (Mostra del Cinema di Venezia)

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Succede tutto in una notte nel film ” Boys in the trees”  del regista australiano Nicholas Verso. Succede che un ragazzo, Corey, diventa uomo attraverso la paura e la sofferenza. Ma anche attraverso il contatto ravvicinato con il femminile, impersonato dalla bella e solida Romany. Il regista  ripesca i suoi ricordi adolescenziali per offrirci una storia intensa e ricca di implicazioni psicologiche  e sociologiche. Il film, ambientato nel 1997, all’alba della diffusione (invasione?) massiccia della rete nella vita dei ragazzi, parla dell’esperienza di un ragazzo di 16 anni, avvenuta in una cittadina della provincia australiana nella notte di Halloween, che si trasforma in una vera propria iniziazione alla vita adulta. Il francese David Le Breton in un libro intitolato “Antropologia del dolore” sostiene che “il dolore inerisce alla vita come contrappunto che dà pienezza al fervore di esistere” e analizza i comportamenti degli adolescenti di oggi paragonandoli ai riti di iniziazione delle società basate su un’organizzazione tribale. Corey appartiene alla gang dei Gromits, capeggiata dal “cinico” Jango e composta da un pugno di ragazzi in cerca di identità e sicurezza e, anche se lui appare da subito più sensibile degli altri, subisce il fascino del capo che stabilisce i comportamenti da adottare e quelli da evitare. Tra questi ultimi vi sono il rispetto dei genitori, la tenerezza verso le donne, l’accettazione del “diverso” di qualunque tipo. Esibirsi, fare i duri, menare le mani con chiunque si metta sulla loro strada, saccheggiare le dispense dei genitori, soprattutto le scorte di alcolici, ostentare la propria “natura” di adolescenti proprio come se questa fosse una condizione eterna,  sono invece le regole non scritte del gruppo. Corey ama la fotografia e la camera oscura e vorrebbe studiarla all’università lasciando gruppo e terra natale, ma questo significherebbe, agli occhi di Jango, immettere una progettualità, e quindi il senso del tempo, all’interno dell’organizzazione sociale della banda, basata sul “qui ed ora”, con il rischio di scardinarla e questo non è possibile. Corey sembra rinunciare alle sue aspirazioni in cambio della sicurezza. Accetta di fotografare le esibizioni in skateboard di Jango e compagni, dove la ricerca del rischio, come lo stesso Le Breton ci ricorda, fa parte del gioco: l’adolescente deve sperimentare da vicino la fragilità di un corpo di cui è finalmente padrone per conquistare il diritto ad esistere nel mondo. Anche questo fa parte dei riti di iniziazione. Ma Corey è costretto a fotografare anche la faccia ammaccata di Jonah, che ha appena incassato un cazzotto da Jango per avergli attraversato la strada involontariamente mentre lui si esibiva vanitosamente sullo skate. Corey non partecipa attivamente allo scherno nei confronti del “diverso” Jonah, ma non si oppone alla diffusione della foto che, fotocopiata in molti esemplari, finisce per tappezzare muri e alberi della cittadina. Se non che, Jonah è stato un suo grande amico quando i due erano bambini e passavano tempo sugli alberi a giocare e fantasticare. E questo è il primo albero che incontriamo nel film e che gli dà il titolo. Altri alberi ci saranno: reali, ricordati o metaforici, tutti grandemente significativi per l’evoluzione della storia. Di cui ora non voglio dire altro, ma solo suggerire. Inizia un viaggio fantastico, magico e – complice la notte di Halloween – pauroso, che Corey affronta con Jonah e infine da solo, ma dopo avere avuto un contatto ravvicinato con Romany che sembra avergli dato il coraggio di continuare, come succedeva agli eroi delle leggende del tempo che fu.

Lo spettatore, come nei film di Tim Burton, deve immergersi e vivere l’esperienza che gli viene presentata, lasciarsi trasportare dall’irrazionale, invadere dal dubbio e dall’incertezza, dalla paura. Solo in questo modo potrà sentire cosa prova Corey e con lui l’adolescente che cerca di uscire da soluzioni facili e rassicuranti e nascere ad un nuovo stato, quello di adulto, senza rinunciare ai sogni, diventati ora anche aspirazioni e progetti.

Un film pregevole e sensibile, in conclusione, che esplora temi che esploderanno nei successivi vent’anni: l’approfondirsi della crisi della società occidentale che complica ulteriormente il passaggio adolescenziale, la dipendenza dalla rete usata anche per sopraffare i più deboli, il bullismo nei confronti dei diversi. Solo qualche appunto. Ci sono passaggi, soprattutto all’inizio, un po’ didascalici, ad esempio quando i ragazzi si definiscono “adolescenti”. Loro non lo fanno mai, a mio parere, mentre, se mai, amano definire gli altri, sia i bambini che gli adulti. E, per ultimo, una considerazione sul finale del film. Lo spettatore ha già capito tutto quello che c’era da capire e ha “sentito” quello che c’era da sentire, anche senza la rassicurazione dell’ultima scena.

Adriana Grotta

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