Archivio mensile:Maggio 2009

CANNES 2009 "Inglorious basterds" di Quentin Tarantino (Usa 2009)

LocandinaQuentin Tarantino piace proprio a tutti, anche a Pedro Almodovar che questa mattina era seduto davanti a me alla proiezione finale del nuovo film del geniaccio americano e che è stato fra i primi ad applaudire divertito alla fine della proiezione. Tratto dal film italiano di Enzo Girolamo Castellari "Quel maledetto treno blindato", il nuovo film di Tarantino non è un vero remake ma una radicale rielaborazione dell'opera originale, talmente complessa da risultare quasi incredibile che sia partito dal film di Castellari per creare questo sublime gioco di gusto cinefilo fra la storia del cinema della seconda guerra mondiale e la mitologia cinematografica del secondo conflitto nata e sviluppatasi nel dopoguerra. Riutilizzando molti brani che Ennio Morricone creò per spaghetti western a low budget negli anni 60', Tarantino racconta in modo assolutamente western la seconda guerra mondiale, l'olocausto, l'occupazione francese, la resistenza ed il terzo reich. Naturalmente tutto il film è un grandissimo gioco divertito e divertente, un gioco talmente esplicito e condiviso dallo spettatore da potersi perfino permettere di riscrivere in modo imprevedibile e gustosissimo la storia della seconda guerra mondiale, un mondo rifatto secondo i suoi bisogni ma così esplicito e geniale nella rielaborazione da stupire e divertire. La storia comincia con una scena che sembra presa dal film di Sergio Leone "Il buono, il brutto e il cattivo" dove un magnifico bastardo nazista (abituatevi a questa parola perchè oltre ad essere il titolo del film è un collante indispensabile nel racconto) con crudeltà inaudita e diabolica genialità massacra una famiglia di ebrei in fuga, salva solo una bambina, l'errore cruciale che farà cadere il domino del Reich. La scena che segue è puro cinema in salsa Tarantino, un monologo straordinario di Brad Pitt che motiva la sua squadra speciale "I bastardi senza gloria" alla resistenza "apache" in Francia, con tanto di torture ai nazisti e scalpi strappati agli ufficiali delle SS ancora agonizzanti.
Ma nel film c'è più di tutto il grande Cinema, sorprendente e divertentissimo vedere iprotagonisti fra un massacro e l'altro parlare di Pabst, della Riefensthal e di David O'Selznick, Tarantino ci regala attrici spie che fanno il doppio gioco, critici cinematografici in missione militare per conto di Churchill, e nazisti così cattivi ed infami da non poter essere che un piacere vederli fatti a pezzi dai "bastardi" di Brad Pitt, merita una menzione il regista Eli Roth che ci regala un interpretazione straordinaria e divertente e lo stesso Brad Pitt che per fingersi una controfigura cinematografica fascista, con un italiano terrificante, si atteggia ad un ibrido fra Benito Mussolini e Vito Corlenone del "Padrino". Il film è un affresco colto e raffinato sulla cinematografia della seconda guerra mondiale e sulla sua iconografia aggiungendo strepitosi momenti di cinema di genere alla Sergio Leone.
In realtà sembra che Tarantino voglia esorcizzare l'idea dell'Olocausto non certo negandolo ma trasformandolo e cambiando la storia della seconda guerra mondilae con un solo evidente scopo, comunicare alle nuove generazioni che solo agendo con risolutezza e determinazione si salva la propria libertà e che solo fiducia in se stessi e profondo senso critico delle istituzioni si può evitare la venuta di una nuova dittatura o un nuovo Olocausto, insomma giocando con la morte e la violenza tarantino gira un film splendido che oltre a divertire ed emozionare sarà un sano e gustoso schiaffo morale a tutti i neonazisti e a tanti ragazzetti che anche in Italia pensando che vestire di nero e rasarsi la testa sia un modo per essere più fighi, forti e duri e per dimostrae agli altri di essere diventati uomini, che si guardassero cosa pensa di loro Tarantino che da sempre è un mito anche per questi ragazzi.
Non manca nel finale una bella critica al governo americano che dopo la seconda guerra mondiale aprì le porte a nazisti e fascisti facoltosi o dal cervello prezioso dimostrando totale indifferenza per la connivenza e la complività che aveavno dimostrato durante i giorni dell'Olocausto. La scena finale interamente ambientata in un Cinema (di cui non posso dirvi nulla per non rovinare il gusto della visione) è per lo spettatore una giustizia appagante e purificante che coinvolge e diverte con grandissimi momenti di genialità cinematografica ed autoriale.
Daniele Clementi

CANNES 2009: "Sanpei the fisher boy" di Yojiro Takita (Giappone 2009)

Il pescatore Sanpei è stato il protagonista di una fortunatissima serie di manga in Giappone, e poi di una memorabile serie animata durante gli anni '70. In un momento di intenso revival, ecco arrivare dal Giappone una produzione a cinque stelle che per la prima volta racconta, con attori in carne ed ossa, le gesta del giovane pescatore Sanpei.

Alcune settimane fa avevamo parlato del regista premio oscar Yojiro Takita, che aveva incantato l'occidente con il film "Departures", ed ecco arrivare fresca fresca dal Giappone la sua nuova fatica, una raffinata e delicata riduzione cinematografica per famiglie del famoso Sanpei. I personaggi sono riprodotti molto fedelmente, così come l'ambientazione e la struttura del racconto. Il film in realtà è l'occasione per Yojiro Takita di parlare del rapporto fra l'uomo e la natura e quello strano processo autolesionista che spinge l'uomo a non ascoltare l'essenza di quel mondo da cui proviene e a cui appartiene.

Un bel film per famiglie, girato ad altissimo livello tecnico e con ottimi interpreti, destinato prioritariamente ai ragazzi consumatori di gameboy e playstation che sempre più spesso non sanno cosa sia la natura. Fra le scene memorabili resta impresso il lungo ed avvincente trekking per raggiungere il lago perduto abitato da una carpa gigante e le scene di pesca, che molto probabilmente non piaceranno ai pescatori, per indubbia carenza di realismo, ma che sono cinematograficamente molto godibili.

Daniele Clementi

CANNES 2009: "AntiChrist" di Lars Von Trier

La pietra dello scandalo al Festival di Cannes è ovviamente Lars Von Trier, con un film unico e disturbante, geniale e malvagio, che fa pensare alla rinascita del cinema splatter e di tortura di Tobe Hooper degli anni '70, che ha visto esponenti di spicco come il bravo Eli Roth con l'indimenticabile "Hostel". Il film comincia con una scena al rallentatore di un amplesso violento ed animalesco fra i protagonisti, una scena di fortissimo impatto, accompagnata da un brano di musica lirica ed una scelta cromatica di bianco e nero. La sequenza intervalla l'amplesso con le scene di un bambino molto piccolo che lentamente tenta di raggiungere i genitori impegnati nell'atto sessuale. Bisogna precisare che il regista danese non manca di mostrarci anche un primo piano dei genitali dei protagonisti, con un inquadratura degna di un film porno, incastonata in una sinfonia visiva inedita e provocatoria.

L'amplesso si conclude in parallelo con la caduta del bambino dalla finestra. Da quel momento in poi la storia del film è una scrupolosa ricostruzione del lutto a colori. Per non rovinarvi il gusto di vedere questo film straordinario ci limiteremo a dirvi che Lars Von Trier passerà in continuazione dal cinema horror al dramma psicologico, non mancando di regalarci sequenze di erotismo che rasentano consapevolmente la pornografia ed incredili scene di mutilazione fisica degne di un classico dello splatter. Forse quello di Lars Von Trier è il primo film a mostrare un'evirazione femminile in tutto il suo orrore ma non bisogna cadere nell'errore bigotto di pensare che tutto sia spettacolo senza poesia, in realtà ogni singola sequenza è il frutto di un lavoro ossessivo e straordinario sulla psicoanalisi, la stregoneria medievale e la parte più nascosta ed oscura della donna.

In tutta onestà forse  è il primo film che racconta il lato oscuro della donna fin nel suo più intimo profondo, passando dalla nevrosi all'isteria, senza dimenticare la stregoneria e la Santa Inquisizione.

Un film dell'orrore magnifico, proprio perchè dell'orrore non è, ma vi attinge solo per raccontare con inedita crudeltà visiva la parte più spaventosa nascosta dentro di noi. La foresta che compare nel film, poi, è semplicemente magistrale, un esempio di narrazione visiva che fa pensare all'immortale "Shining" ed a Stanley Kubrick, non a caso altro grande genio del cinema con evidente vicinanza al sadismo.

Un film semplice nella messa in scena ed elaboratissimo nei significati, un lungometraggio che inevitabilmente farà parlare di sé e procurerà non pochi disturbi agli spettatori più ottusi e moralisti che non vogliono o non sanno vedere l'oscurità che li circonda e li permea, Grazie a Dio, o all'Anticristo, Lars Von Trier è tornato, più crudele, lucido e geniale che mai.

Daniele Clementi

CANNES 2009: "Tales from the golden age" di autori vari (Romania 2009)

La rivoluzione rumena del 1989 fu probabilmente una delle più violente dell'Europa orientale contemporanea, inevitabile riflesso di una dittatura che aveva straziato il paese.

Nicolae Ceauşescu fu processato e condannato a morte con la moglie Anna, uno dei pochi dittatori moderni a non farla franca. Vent'anni dopo la rivoluzione ecco uscire un film della nuova Romania. Un pool di registi brillanti e coraggiosi che, capitanati dal vincitore della Palma d'oro Cristian Mungiu, ritraggono gli anni della dittatura con raffinatezza ed intelligenza. Si comincia con due segmenti brevi, divertentissimi, per poi sfociare in storie sempre più drammatiche ed intense. Poichè rivelare le storie sarebbe un vero crimine ci limiteremo a segnalare quella dedicata alle riunioni del quotidiano nazionale sulle foto del dittatore, che, essendo basso, non doveva comparire troppo piccolo rispetto ai suoi interlocutori e necessitava di continui fotomontaggi. Il ritocco fotografico che cambia la realtà di un evento o migliora l'aspetto del leader è da sempre prerogativa delle dittature o delle semi-dittature.

Ma i momenti più profondi sono quelli dedicati ai rumeni semplici, il popolo che muore di fame e che risolutamente combatte ogni giorno per avere quel minimo che li mantenga esseri umani. Un film delizioso e ricco che, attraverso una giostra di racconti, ci mostra con ironia ed intelligenza la supposta "età dell'oro" della dittatura rumena. E la nostra "età dell'oro" la vedremo mai al cinema ?

Daniele Clementi

"Solomon Kane" di Michael J. Basset – Cannes 2009

Robert Ervin Howard creò Solomno Kane nel lontano 1929, fu una delle sue prime creazioni e senza dubbio la più importante sul piano letterario se si pensa che influenzò perfino Howard Phillp Lovercraft (per sua stessa ammissione). Howard è noto ai più giovani come il padre di Conan il barbaro e di Kull il conquisttore, due persnaggi molto simili fra loro che condividono un filo immorale ed opportunista nei loro profili. Solomon Kane è completamente diverso dai due nerboruti erori che Howard creò in seguito, è un puritano, ossessionato dalla lotta del bene contro il male, quasi un invasato religioso che insegue le forze del diavolo per combatterle senza riposo o ripensamento, una sorta di crociato tardivo che fu protagonista di ben 16 opere fra gli anni 20' e gli anni 60'. Solomon, mercenario al soldo del regno di Spagna perde la sua anima immortale in un imprevisto duello contro un demone oscuro, da quel momento in poi vaga per le terre della cristianità in cerca di sollievo e perdono, bandito dalla chiesa cattolica troverà rifugio in una carovana mormona che lo educherà a quel puritanesimo che farà di lui il peggior incubo delle forze del male.

Osservando bene il personaggio si potranno notare fortissime somiglinze con la versione creata da Stephen Sommers dell'ammazzavampiri Van Helsing, non si tratta di uno scopiazzamento da parte dei produttori del film di Solomon Kane bensì del contrario, Sommers non avendo ottenuto i diritti per Solomon Kane si reinventò la nemesi di Dracula rendendola più simile al personaggio che non poteva raccontare. Il film diretto da Michael J. Basset onora il più possibile il personaggio originale supportato da solidi effetti speciali ed una buona maestranza produttiva, meritano segnalazione i ruoli d supporto curati da Max Von Sydow (padre naturale di Solomon) e Peter Posstelwhite (padre spirituale). Un film che appartiene con chiarezza al prodotto medio americano girato con professionalità troppo impersonale che coinvolge lo spettatore senza mai brillare però di originalità. Una riduzione rispettabile senza infamia e senza lode che però non resta memorabile. Nella versione integrale proposta al mercato c'è una scena in cui Solomon Kane crocifisso scende dalla croce per continuare la sua crociata che ,conoscendo la censura italiana, rimarrà solo nei ricordi di chi l'ha vista a Cannes.

Daniele Clementi

"Crows episod zero part I & II" di Miike Takashi (2007 – 2009)

Scuola maschile di Suzuran, Kyoto. Ogni classe dell’istituto ha la sua banda di teppisti, ogni livello delle classi corrisponde ad un grado di anzianità delle bande, in questa scuola si formano indirettamente i ragazzi che diventeranno yakuza della prossima generazione. Se un giovane vuole fare carriera deve sfidare il capobanda di ogni classe, stringere alleanza e confrontarsi con gli altri livelli, il capobanda più forte è destinato ad un futuro glorioso anche se breve nel mondo della mafia giapponese. Miike Takashi, uno dei registi più prolifici e violenti del cinema moderno del sol levante mette in scena la storia delle leve di Suzoran in chiave fumettistica, con esplicite esagerazioni ed una forte carica di ironia, ne emerge un film live action costruito come un cartone animato, divertente e coinvolgente anche se forse un pochino diseducativo.  

Un ottimo prodotto della nuova generazione degli yakuza movie giapponesi che diverte e rilassa lo spettatore per 120 minuti senza troppi moralismi o incertezze contenutistiche. L’unico difetto riscontrabile è che potrebbe eccitare i giovani yakuza giapponesi,ma questo già si diceva negli anni 60' dei film di Kinji Fukasaku. Due anni dopo il film citato ecco arrivare in prima visione all'interno del mercato del Festival di Cannes il seguito, attesissimo in patria. Miike questa volta abbandona le sequenza pindariche e fumettitiche a favore di una struttura narrativa più forte, la psicologia dei personaggi ed i loro confliti interiori diventano preponderanti rispetto all'azione, e fin qui ttto bene.Il taglio provocatorio e diseducativo nei confronti dela giustizia e legalità viene totalmente annullato sostituito da un irreale etica buonista che stride con l'anima originale della storia, anche le sequenza delle risse così folgoranti nel primo film sono decisamente più consapevoli della gravità fisica e perfino permeate da un senso di melodramma del tutto inaspettato. Il seguito parte esattamente dove erafinito il primo film ma non ne ripercorre la strada in termine di suggestione e coinvolgimento, rivelandosi una sorta di normalizzazione del film originale e perdendo quello smalto trasgressivo che ci si sarebbe aspettati dal regista.


Daniele Clementi

"Battlestar Galactica" di Glen A. Larson e Ronald D. Moore

Nel 2003 le televisioni del continente americano furono invase da una serie di fantascienza che sintetizzava il trauma dell’undici settembre unendo i canoni della tradizionale saga stellare ed aprendo nuove possibilità a tutti gli autori di serie televisive o di opere di fantascienza, nata come remake di una vecchia serie tv degli anni 70, il progetto “Battlestar Galactica” stava segnando la storia della televisione e della fantascienza, ora che la saga è quasi giunta al termine negli States possiamo cominciare a ragionare sul fenomeno e sul perchè non sarà più possibile prescindere da questa serie per le saghe di fantascienza future.

Nel 1978 Glen A. Larson concepì una serie televisiva di fantascienza con il preciso intento di portare in televisione lo spirito di “Guerre stellari – Star wars” che esattamente un anno prima aveva travolto gli schermi cinematografici americani. Il risultato fu una miniserie di solo un anno che rimase profondamente impressa nell’immaginazione del pubblico americano ed in quella ,naturalmente, dei giovani spettatori italiani che videro la serie alcuni anni dopo.Una razza simile a quella umana vaga nello spazio profondo come una vecchia carovana di coloni del far west in cerca di una terra promessa dove cominciare una nuova vita e fondare una nuova civiltà. I Cyloni, robot costruiti dagli stessi esuli umani e ribellatisi ai loro padroni, danno la caccia ai coloni con il preciso scopo di distruggerne la razza generatrice ritenuta debole ed inferiore. Unica difesa della flotta di coloni è la nave stellare “Galactica” che difende le navi passeggeri sotto la guida del comandante Adama e di un piccolo stormo di caccia stellari molto simili ai famosi “X Wing” creati da George Lucas per “Guerre stellari”. Il leader dei piloti si chiama Apollo ed è il figlio del comandante Adama, al suo fianco combatte il coraggioso Skorpion ,Starbuck nella versione originale, interpretato dal famoso Dirk Benedict (“Sberla” del telefim “A-Team”). A bordo della nave stellare “Galactica”si sviluppano storie d’amore e di amicizia,ma anche pericolose minaccie, il vile ma intelligente Baltarè infatti pronto a tradire la sua stessa razza a favore dei perfidi Cyloni. Nel 1980 , dopo il successo della miniserie, la produzione tentò di riprendere le avventure della nave “Galactica” con una seconda serie televisiva che raccontava l’arrivo della colonia sul pianeta terra ma le cose non andarono altrettanto bene ed il serial si interruppe dopo solo una stagione. Da quel momento in poi la serie è rimasta un mito d’infanzia per alcune generazioni scomparendo nel dimenticatoio bollata ingiustamente come un semplice clone televisivo di “Star wars”. La serie è stata anche divisa in tre film che sintetizzavano tutte le puntate dei due serial in una sorta di montaggio delle scene salienti del racconto, in Italia è uscito solo il primo dei tre film riassuntivi con il titolo “Battaglia nella galassia”.

Nel 2003 la serie è stata ripresa e rielaborata dalla fantasia di Ronald D. Moore e Christopher Eric James che ne hanno fatto una serie innovativa e rivoluzionaria, incredibilmente vicina alle moderne paure degli Stati Uniti. L’umanità viene distrutta nel giro di due ore grazie ad un bombardamento di massa su tutti i pianeti popolati, i Cyloni riescono ad utilizzare dei sofisticati virus per bloccare tutte le difese degli esseri umani infiltrando fra gli umani un solo soldato con il corpo di una donna bellissima terrestre, i pochi sopravvissuti si riuniscono in una manciata di astronavi che hanno come unica difesa la nave stellare “Galactica” una nave da guerra cadente, vecchia ed obsoleta che proprio grazie alla sua totale mancanza di connessioni di rete e sistemi digitali evoluti riesce ad evitare l’attacco virale informatico dei Cyloni. In altre parole la sola speranza di una civiltà allo sbando minacciata da macchine senzienti evolutissime è una vecchia nave che cade in pezzi ed una manciata di caccia da museo privi di moderne tecnologie. Con queste premesse gli umani inziano la loro fuga alla ricerca di un mitico pianeta chiamato “terra” che una vecchia leggenda religiosa vuole sia il pianeta gemello dell’umanità. La miniserie del 2003 si concluse senza un vero finale, nel 2004 la produzione mise in cantiere una vera e propria serie di telefilm che poche settimane fa è giunta al suo compimento con un finale sorprendente che apre le porte ad una serie “prequel” (cioè un seguito che racconta eventi precedenti al telefilm da cui deriva) ed un film per la tv che gli americani vedranno verso giugno.

galactica03Ronald Moore stravolge i personaggi originali creando una serie di fantascienza gotica e drammatica basata sulle modern paure americane e sulla mutazione sociale e culturale del dopo “Ground Zero”. Il personaggio più interessante è sicuramente Baltar, che nella serie originale era il cattivo classico, nella nuova versione è forse il personaggio più intenso e conflittuale, innamorato di una cylon, un robot dal perfetto aspetto umano, farà di tutto per nascondere la sua responsabilità nella distruzione dell’umanità, devastato dalle sue emozioni e dal suo senso di colpa, desideroso di dimostrare agli altri e a se stesso di essere degno di vivere pur essendo uno dei più diretti responsabili della fine dell’umanità diventerà prima scienziato chiave poi Presidente, traditore sotto processo, pensatore rivoluzionario marxista ed infine leader religioso per chiudere la sua iperbole come … (non ve lo dico guardatevi al serie!). Per tutta la durata della serie Baltar sarà ossessionato dalla presenza della donna amata, una presenza che può percepire solo lui, una proiezione della sua mente o forse un chip installato dai cyloni per controllarlo oppure un angelo di Dio (sempre e solo nel finale scoprirete la verità), un personaggio stupendo che sintetizza in un solo carattere la storia socioemotiva del genere umano magistralmente interpretato da James Callis e supportato con straordinaria sensualià dalla strepitosa Tricia Helfer. Baltar proviene da un genere umano che non conosce il monoteismo, un umanità che si è fermata al politeismo greco e che si contrappone ai mostruosi cyloni (da loro stessi generati per ragioni militari) che divenuti senzienti hanno scelto il monoteismo e l’adorazione di una creatura universale che chiamano “Dio”. Insomma una guerra religiosa nello spazio.

La guida dell’esodo stellare degli ultimi umani è nella mani di un anziano comandante che il giorno della distruzione dei pianeti umani stava festeggiando il suo congedo, un vecchio guerriero che aveva vissuto sulla propria pelle la prima guerra dei cyloni e che dimostrerà di sapere molto più di quanto fosse di pubblico dominio su di loro, al suo fianco come capo politico e Presidente in carica una consulente didattica del governo, unica sopravissuta dello staff presidenziale malata di un cancro incurabile e soggetta a visioni religiose, un personaggio drammatico e tormentato, un leader morente che darà una misura molto precisa della sfiducia americana verso l’autorità statale dell’era Bush. I cyloni poi con aspetto perfettamente umano si troveranno infiltrati fra gli esseri umani, pronti a colpire come kamikazen da un secondo all’altro senza pietà. Eppure i nemici robotici con lo sviluppo della serie si riveleranno sempre più umani fino a creare un conflitto nello spettatore stesso che verso la fine della serie avrà sincere perplessità su quale parte scegliere per fare il tifo.

galactica04Uno spazio speciale infine se lo meritano i giovani piloti del Galactica Apollo e Skorpion che in antitesi alla serie originale sono di sesso opposto e molto più nevrotici, la versione femminile di Skorpion è strepitosa, tragica ed intensa, dinamica ed erotica come raramente la televisione consente. Il telefim ,originalissimo nella struttura, cambia direzione spessissimo, se la prima stagione onora la base della miniserie la seconda stravolge le regole creando una tensione politica interna con tanto di battaglie sindacali e conflitti religiosi del tutto imprevedibile in una serie di fantascienza, la terza poi ha inizio in un ambientazione radicalmente opposta a quella del telefim ed impiega almeno dieci puntate prima di riportare lo spettatore nello spazio offrendo nel frattempo una vera e propria saga di resistenza fantapolitica. Un telefilm unico che non ha mai avuto paura di cambiare direzione e che ha lasciato un segno indelebile nella storia della fantascienza moderna, impossibile per i prossimi film o telefim di fantascienza prescindere dalle scelte di questa serie così come ha confermato lo stesso George Lucas in merito al telefilm di “Guerre stellari” che sta preparando, se le voci che girano fossero vere potremmo parlare di “Guerre stellari” che ispirò “Galactica” e che trent’anni dopo fu ispirato da chi ispirò, un risulato notevole. Seppure il telefilm sia di fantascienza, i suoi contenuti intellettuali e politici, la cupezza di alcune scene e la violenza di altre lo rendono un prodotto più per adolescenti e adulti che per bambini e famiglie.

Daniele Clementi

"Star Trek" (2009) di J.J. Abrams

Space: The final frontier. These are the voyages of the Starship Enterprise and its 5 year mission to explore strange new worlds, to seek out new life and new civilizations … to boldly go where no man has gone before.” Era il lontano 1966 quando il pubblico americano per la prima volta udì queste poche parole che facevano da apertura a quella che sarebbe diventata (nonostante tre sole stagioni di prosecuzione) la più longeva saga stellare della storia. Gene Roddenberry fino a quel momento era stato un promettente sceneggiatore televisivo con una solida formazione ed una buona capacità di caratterizzare i personaggi, lui per primo non avrebbe mai pensato di stare per diventare uno dei nomi più importanti della storia della fantascienza televisiva e cinematografica.
Il film pilota della gloriosa serie di “Star Trek” non era piaciuto, il capitano non convinceva ed il primo ufficiale donna non sembrava adatto con le mode del momento (troppo presto per un ruolo femminile così importante in America), dunque il progetto fu riscritto, un capitano più dinamico e fisico, un primo ufficiale maschio ed alieno ed una sola figura femminile posta in secondo piano ma con un ruolo comunque molto importante, trasgredendo inoltrealle regole non scritte che non vedevano di buon occhio una donna di colore come membro fisso di una serie tv. Un piccolo telefilm che aveva spettatori fuori dal comune che lo sostenevano apertamente come John Kennedy o Martin Luther King. Un telefilm che in soli tre anni disturbò uomini politici conservatori ed unì moderati americani con giovani ribelli e figli dei fiori, il primo telefilm multigenerazionale e multisociale della storia della tv americana che scatenò una consultazione parlamentare per la messa in onda del primo bacio multiraziale della storia. Un americano alla guida della nave, un alieno al suo fianco ed un burbero europeo come controparte etica, il resto composto da uno scozzese, un russo, un cinese ed una donna africana, una miscela unica ed esplosiva che probabilmente educò alla tolleranza molteplici generazioni di più e meglio di una qualsiasi attività didattica governativa.Una leggenda che riprese vita all’inizio degli anni ’70 con una breve ma intensa serie tv animata e che giunse nell’Olimpo del cinema nel 1979 con un film filosofico ed intellettuale, degno erede della scuola di “2001 Odissea nello spazio” firmato dal premio Oscar Robert Wise. Da quel momento in poi il mito di “StarTrek” è solo cresciuto nel tempo raggiungendo il suo vertice di incassi nel 1986 con il quarto capitolo “The voyage home – Rotta verso la terra” un piccolo gioiello della fantascienza dal messaggio ecologista che contribuì alla battaglia contro l’estinzione delle balene. Nel 1987, con la collaborazione dell’autore e del produttore televisivo Rick Berman, il mondo creato da Roddenberry cambiò direzione con 4 serie televisve che proseguirono sulla strada tracciata dal padre della serie, anno dopo anno si susseguirono capitani stellari diversi fra loro come l’europeo e shakesperiano Picard di “The next generation“, il religioso capitano di colore Sisko di “Deep Space Nine“, la risoluta Gennaway di “Voyager” (in risposta alla censura del ’66 arrivò negli anni ’90 una serie con una donna come capitano che durò 7 anni) ed il repubblicano e guerrafondaio Archer di “Enterprise“. Una saga infinita che produsse un vero universo seriale con profondi collegamenti tra film e telefim ed una vera e propria macchina di gadget costantemente alimentata da milioni di fan in tutto il mondo.
Quarantatre anni dopo ecco arrivare un nuovo inizio, alla guida dell’ambizioso progetto un nome di forte tendenza come J.J. Abrams, padre di serie di successo come “Alias” e “Lost“, regista di “Mission Impossible III” e produttore di “Cloverfield“. Abrams riscrive “Star Trek” come nessuno aveva mai osato pensare di fare e lo fa liberandosi con originalità dal peso di tutto ciò che è stato fatto dal 1966 ad oggi, una nave stellare romulana viaggia nel tempo per stravolgere il corso della storia ed uccidere un nome chiave del futuro dell’umanità come James Tiberius Kirk, lo storico capitano della nave stellare Enterprise, protagonista della prima serie del 1966.A questo punto potrei assopirvi con lunghissime spiegazione sul chi è chi di questo nuovo film, su come è collegato al passato e nello stesso tempo non lo è ma vi risparmierò questa tortura spiegandovi solo questo, gli avvenimenti narrati in questo film si svolgono prima della serie del 1966 e le conseguenze del viaggio nel tempo degli alieni romulani sono talmente devastanti da provocare la nascita di un nuovo futuro, quindi tutto quello che è stato raccontatao dal 1966 fino alla serie “Enterprise” non esiste più e nel migliore dei casi non si realizzerà più allo stesso modo, in altre parole Abrams cancella il passato partendo dall’incontro fra Spok e Kirk e si apre la strada ad una nuova saga che sfrutterà personaggi ed ambienti del passato reinventandoli da capo. Una soluzione pratica per non dover sostenere il confronto con quarant’anni di storie che certamente farà storcere il naso ai fan più sfegatati e che suona come tentativo radicale di riscrivere “Star Trek” per le nuove generazioni senza essere troppo doloroso con le vecchie. Il film è certamente il più dinamico dell’intera saga, quello che gioca di più con gli effetti speciali e che trae più insegnamento dal mondo di “Guerre stellari” e dalle nuove storie d’azione, il nuovo mondo raccontato da Abrams ci regala uno Spok più umano e decisamente più condizionato dalle emozioni, al punto da poter sostenere una love story con Uhura (la mitica responsabile delle comunicazioni afro-americana). Eric Bana nel ruolo del cattivo è un pò monotono e poco probabile, mentre risalta enormemente rispetto a tutti gli altri lo straordinario Simon Pegg così bravo e stuzzicante da dare una spinta di vitalità ad un film tanto bello esteticamente quanto vuoto e piatto come colpi di scena e soluzioni narrative. Se la serie del 1966 era decisamente kennediana questo primo fim di Abrams non sembra avere particolari velleità politiche e supposte influenze con il pensiero di Obamae qualsiasi legame con lo stesso sembrano sinceramente appicicate alla meglio rispetto a quello che fece nel 1966 Roddenberry. Un film godibilissimo, ben girato e divertente ma decisamente vuoto e privo di anima rispetto alla modesta ma genuina serie degli anni ’60.
Daniele Clementi

Gongfupian tailandesi 2009

La giornata di apertura del Festival ci ha regalato due film nuovissimi in prima visione europea.Si comincia con il fenomeno “ONG BAK”, in Tailandia l’industria cinematografica si sta concentrando in particolare sul genere horror e sul gongfupian (film di arti marziali).Da qualche anno a questa parte la Tailandia ha scoperto il fenomeno di Tony Jaa, interprete di film di arti marziali ormai considerato erede di Bruce Lee (ma nel corso di questi ultimi trent’anni i supposti eredi di Bruce Lee saranno stati almeno tre dozzine). I suoi film ,estremamente sofisticati nelle coreografie di lotta, sono fra i più venduti in estremo oriente. La religione buddista è molto presente nel cinema di arti marziali tailandesi, la maggioranza delle azioni narrate sono condizionate da un trittico quasi inevitabile: la religione, l’arte della lotta e l’onore.  

Non mancano mai statue buddiste, spesso sfregiate durante la battaglia e in seguito onorate non solo come simbolo di religiosità e ma anche come testimonianza o ricordo di guerra, la componente religiosa non è troppo violentemente esplicitata ma è costante, non solo perché i personaggi ne sono avvolti ma perché dietro alle loro azioni spesso ci sono metafore strettamente vincolate al buddismo. Questa commistione buddismo e violenza potrebbe lasciare perplessi dato che uno dei suffissi chiave del pensiero del Buddha illuminato è proprio la non violenza, ma a giudicare dal numero ingente di film tailandesi in cui è visibile sembra che non disturbi lo spettatore anzi pare dare alle guerre degli eroi di questi film una sorta di giustificazione morale. Nulla che debba turbare più di tanto ad ogni modo , in fondo le crociate e molte altre guerra del mondo occidentale erano presentate al popolo con lo stesso principio.Il primo film di “ONG BAK” già uscito in Italia alcuni anni fa era ambientato nell’epoca contemporanea ed aveva come sfondo del racconto il furto delle statue religiose tailandesi per il mercato nero. Questo “prequel” (seguito che si svolge prima degli eventi narrati nel film originale) invece si ambienta in un profondo passato dove ancora le uniche armi sono i propri arti o le spade. Difficile che vi sia credibilità storica nelle scelte estetiche che raccontano una Tailandia a metà fra un medioevo orientale ed un mondo fantasy ma certamente la resa visiva del film è magnifica, anche i personaggi seppure paragonabili ai super eroi del mondo americano sono decisamente più credibili di tanti altri protagonisti di kolossal tailandesi precedenti ed il talento visivo del regista Panna Rittikrai (che ha lavorato con il protagonista Tony Jaa per la regia del film) supera qualsiasi perplessità sulla credibilità di ciò che ci viene mostrato, se ci diverte vedere “300” consapevoli che gli spartani non erano così, a maggior ragione ci sta bene vedere i guerrieri mitologici tailandesi agire quasi come X- MEN. Il film mostra però la corda, come spesso capita nei gongfupian tailandesi, sulla sceneggiatura che offre personaggi privi di spessore e sviluppi narrativi troppo repentini e poco credibili.

Pochi giorni dopo i gongfupian a sfondo religioso ecco quelli a sfondo gastronomico. Bisogna riconoscere l’originalità di base di queste scelte e lasciar correre per quello che riguarda la credibilità o i contenuti. Il primo film è “Chocolate”, la strana storia di una ragazza ritardata con un talento innato per le arti marziali, che vive alimentandosi solo di cioccolata. Quando la madre comincia delle sedute di chemioterapia, la ragazza decide di sfruttare il suo talento per riscuotere i debiti della famiglia. Il film, diretto da Prachya Pinakaew (Ong Bak), regala allo spettatore sequenze di arti marziali uniche nella storia del genere, alcune delle quali talmente realistiche da aver procurato contusioni e fratture vere agli attori. Non ci sono dubbi in merito alla qualità coreografica di questo film, che lascia lo spettatore con il fiato sospeso fino al duello finale originalissimo e divertente, ovviamente il film non manca di ammiccare al cinema di Bruce Lee e di Quentin Tarantino.

Il secondo titolo degno di segnalazione è “Som-Tum”, il titolo richiama un tipico piatto piccante tailandese, la storia è quella di un gigante buono australiano che viene circuito da una prostituta tailandese e si ritrova per strada senza soldi e documenti con solo un paio di pantaloni addosso, aiutato da due bambine molto sveglie e micidiali nelle arti marziali riuscirà a risolvere tutti i suoi problemi. Il film, chiaramente destinato alle famiglie ci regala un originalissimo “Hulk” low budget di colore rosso, effetto collaterale che sperimenta il colosso australiano ogni volta che mangia il som-tum.

La piccola industria tailandese cerca di fare il possibile per mostrarsi degna di considerazione sul mercato internazionale, devia con eleganza qualsiasi riferimento alla gestione militare del Paese e riduce al minimo l’esistenza del turismo sessuale, ma come risultato finale, ciò che si vede poco o non si vede, fa in realtà luce agli occhi di chi già conosce i risvolti ombrosi di questo Paese.

Daniele Clementi

“Yattaman” di Miike Takashi (FEFF 2009)

Miike Takashi è sicuramente uno dei registi più versatili ed originali della storia del cinema giapponese. I suoi film spaziano dalle yakuza story al cinema horror fino alle storie fantasy per famiglie, una carriera unica e sempre ricca di sperimentazione. Non sorprende quindi che sia stato lui alla fine ad essere designato per la regia del kolossal giapponese che trasporta dal cartone animato al cinema con attori in carne ed ossa il famosissimo “anime” del 1977 “Yattaman”. Il film onora integralmente la struttura narrativa e visiva del cartone animato originale, riproducendo con precisione ossessiva, i dettagli visivi, inclusi gli abiti e le scenografie, in alcuni casi abiti ed ambienti vengono perfino potenziati rispetto agli anni 70 proprio per dare nuovo smalto alla saga senza però negare il passato.

Inutile ragionare in termini di contenuto della sceneggiatura o di profondità dei personaggi, in questo caso sarebbe un errore pretendere una profondità che il cartone animato non aveva. Ma la vera punta di diamante del film non sono tanto gli effetti speciali quanto la presenza scenica assolutamente unica di Fukada Kyoko, straordinaria cattiva Doronjo, che così come turbava il sonno dei maschietti che seguivano il cartone con le sue tutine attillate nere, oggi stimola l’attempato spettatore che torna in sala per rivedere gli eroi della sua infanzia con le nuove divise in pelle nera, con le movenza perfette che aveva la bambolina disegnata del cartoon e con una presenza scenica che letteralmente cancella quella degli altri personaggi. Nel film non mancano forti riferimenti erotici, che nella serie animata non erano così evidenti, Il robot Yattamen della nostra infanzia muore mentre ha un rapporto sessuale con la megarobot nemica, l’inventore di Yattaman non manca di rimanere infatuato da giovani pulzelle in cerca di aiuto o addirittura dalla nostra Doronjo con cui si sviluppa una sorprendente anche se breve love story, fra le chicche che Miike ci regala ci sono anche la nascita di un nuovo robot gigante denominato Yattaman King (il primo Yattaman cade copulando nei primi 30 minuti di film) e la rivelazione del vero aspetto del boss occulto dei ladri che da sempre comanda e punisce il clan di Doronjo. Un film meticoloso in ogni dettaglio, ironico e dissacrante che riesce ad esaltare i ricordi del cartoon ed al tempo stesso di evidenziarne i dettagli ridicoli.

Daniele Clementi