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" La Città Proibita " di Zhang Yimou (4)

Le pillole di Crazy Tiger

” La Città Proibita ” di Zhang Yimou

Recensione di Crazy Tiger

Oggi la mia pillola sarà ben più ridotta del solito in quanto tra il tradurre i sottotitoli in inglese e i pisolini che ho schiacciato vedendo questo film ho ben poco da scrivere. Questa volta Zhang Yimou ci fa esplorare la Cina del decimo secolo, la magnifica, opprimente e inaccessibile Città Proibita della dinastia dei Tang. Il regista non si è risparmiato in comparse e costumi, inappuntabili. La scenografia è, come suo stile, maestosa. Il lungometraggio sottolinea il fortunato momento economico che la Cina sta vivendo. La trama ruota intorno al dramma che si consuma all’interno di queste mura dorate, i giorni tutti uguali degli imperatori che non possono uscire o avere visite. Il trittico potere- solitudine- follia non viene giocato coinvolgendo a livello psicologico il pubblico come avviene ad esempio in Shining di Kubrick, ne con ironia come nel discusso Chinese Odyssey di Jeff Lau ma con una scansione teatrale con un risultato fatale per i centri nervosi che regolano il sonno. In realtà Yimou non aveva niente da dire. Unica nota positiva la presenza della grande Gong Li nei panni dell’imperatrice, la sua bravura spezza l’astrattezza dell’opera.

" La Città Proibita " di Zhang Yimou (3)

” La Città Proibita ” di Zhang Yimou

Recensione di Marina Pianu

ovvero, la maledizione dei fiori dorati

i fiori sono dorati, ma nelle sapienti (sempre piu’ tremule) mani dell’avvenente imperatrice si tingono man mano di rosso, quel riflesso di rosso colante nei corridoi di palazzo, corridoi che bisbigliano origliano sorvegliano, dove puntuale passano le processioni, dove sfilano solenni i personaggi imperiali, rosso che alla fine tingera’ i fiori veri e quelli ricamati che quelli veri imitano. giallo e rosso si contendono il dominio della pellicola, in uno sfarzo di colori e costumi fatti per abbagliare conquistare distrarre da una trama troppo complicata e intrisa di temi secondari quasi inestricabili. giallo e giallo e giallo, ma non e’ un giallo, anche se per una buona parte lo vorrebbe sembrare. chi avvelena l’imperatrice? a che pro? quando lo spettatore trova la prima risposta, ha gia’ smesso di interrogarsi per la seconda.

tra il giallo e il rosso s’innesta il verde della tisana avvelenata, pervicacemente offerta e pervicacemente trangugiata. un verde che anziche’ speranza dona angoscia e inesorabile fatalita’, preludendo al nero dell’imboscata mortale, al nero della macchia finale oltre la quale non resta che il nulla del mandala di cielo e terra, sole e luna, ying e yang.

l’abbiamo ormai capito: il senso di futilita’ finale rientra nello stile di zhang yimou: come nelle precedenti epiche (“la foresta dei pugnali volanti”, “hero”) la lotta tra bene e male si risolve in una resa dei conti
sentimentale. vero e’ che noi siamo occidentali e (ancora!) abituati al modello di tragedia dove lo spargimento di sangue ha una motivazione logica, che sia redenzione o espiazione o immolazione, e in cui sempre alla fine scatta inesorabile l’effetto catartico, riscatto di ognuno degli spettatori. qui lo spargimento di sangue e’ totale; tutti quelli che le prendono le meritano almeno un po’. il figlio devoto s’immola (anche per evitare una piu’ aspra punizione) e rimaniamo con un cattivo (ma perche’ e’ tanto cattivo?) destinato a vedere la fine dei suoi giorni al fianco di una sposa ogni giorno piu’ cretina. e alla fine… come nel titolo di quel giallo famoso, non ne rimane nessuno: buoni e cattivi rientrano nel tutto nullo.

al tema politico del generale che si costruisce una nobilta’ per diventare imperatore e inventandosi una imperatrice defunta, s’intreccia il tema dell’incesto: nominale quello del figlio con l’imperatrice, vero quello dello stesso figlio con l’ancella che poi si scopre sorella. e si mescola la debolezza di carattere del primogenito, giustamente escluso dall’eredita’, con la forza del secondogenito, eroicamente devoto alla madre fino al punto di violare l’ingiunzione paterna (tutto ti verra’ dato se lo chiederai, ma niente dovrai prendere con la forza). il perfettamente malvagio ping (incarnazione di falsita’ e corruzione), sorretto da una carismatica interpretazione, ci spinge facilmente a simpatizzare per la sua sposa, pubblicamente umiliata e costretta a bere la bevanda malefica, ma ci resta sempre il dubbio: l’avvelena per vendicarsi della tresca, per eliminare un pericoloso testimone del suo dubbio passato, o ancora per sventare l’eventualita’ imminente di un colpo di stato?

non puo’ passare inosservato come le donne, tra loro, alla fine sono tutte solidali, anche se per calcolo piu’ che per sorellanza: la prima moglie fornisce all’imperatrice l’informazione di cui ha bisogno, e questa al momento opportuno invia gli aiuti per salvare la vita a lei e alla figlia, che pure le e’ rivale in amore. dubbio: quando l’imperatrice compie la sua sortita nella stanza del figliastro-amante per scoprirlo con l’ancella, e’ mossa da gelosia o dal piu’ nobile scopo di osteggiare un’amore realmente incestuoso?

a parte qualche involontario sorriso (ping che estrae la cintura per punire il terzogenito), molti gli interrogativi che questo film si lascia dietro e ognuno e’ libero di costruirci sopra le risposte che preferisce. certo e’ che siamo lontani dall’immagine eroica e umana dell’imperatore di “hero”, e tra lo sfarzo e l’abbaglio di costume, sanguinano le mura di meschinita’ egoismo e vanagloria. uno spettacolo per gli occhi, ma non precisamente per l’anima.

infine: e’ un peccato che il titolo italiano risulti fuorviante. allude, forse senza malizia, al celebre e decantato kolossal bertolucciano, che ha reso noto a molti l’esistenza della “citta’ proibita” (altra epoca, altri costumi, altri parametri, stesso decor). e’ un peccato perche’ il titolo originale, “la maledizione dei fiori dorati”, non solo risulta piu’ pertinente ma, anticipandolo, nel gran finale trova la sua con-clusione. del resto, non bisogna attendere molto per capire che tutta la cacca colpira’ il ventaglio con l’arrivo del chongyang festival!

" La Città Proibita " di Zhang Yimou (2)

” La Città Proibita ” di Zhang Yimou

Recensione di Paolo Strigini

Un kolossal, anche se forse non sarà costato cifre stratosferiche grazie agli effetti speciali. Kolossal nelle intenzioni e nei risultati, con musiche alla Hollywood, con masse rutilanti d’oro e d’argento, killers neri cattivissimi armati di falce, sfondi rossi di tutte le sfumature dalla porpora di Alessandro, degl’imperatori e dei papi romani al sangue che sgorga e cola in pozze (anche se teste e membra mozzate s’intuiscono, ma non si vedono mai), alla violenza delle passioni e dei dialoghi più o meno shakespeariani.

Fa anche paura pensare che i Cinesi (come fanno a esser così numerosi dopo tanti massacri?) si  rappresentino come formiche guerriere pronte solo a lanciare urrah, uccidere e farsi scannare: i guerrieri di terracotta sepolti a Sian sembra che mostrino molta più individualità. Poi uno pensa anche a quante radici (le patate non c’erano) avranno dovuto mangiare i milioni di contadini a cui toccava mantenere, armare e decorare tutti i bellimbusti della corte imperiale e i loro eserciti.

I quali, certo, non si divertono (anche i ricchi piangono). Anzi, soffrono tremende pene d’amori impossibili o traditi e di ambizioni insaziabili del potere. Prima di tutti l’imperatore, l’unico che (scopriamo) sapeva tutto, dal tradimento della bella moglie alle complicate parentele della sua corte, e rimane vivo (probabilmente lui solo) alla fine, su tappeti di cadaveri e di crisantemi. Poi c’è l’imperatrice, l’affascinante e misteriosa Gong Li dai sorrisi avari e preziosi, che sorseggia la sua cicuta anche dopo esserne stata avvertita, l’amletico principe, figlio dell’”altra”, che lei seduce e tenterà invano di uccidersi, mentre ci riuscirà l’altro principe, figlio di lei, dopo aver guidato un esercito sterminato all’ecatombe. Eh sì, perché la Città proibita è difesa da mura semoventi, meglio del G8 e d’Israele. Eccetera.

 

Certo non mancano scene indimenticabili, ad esempio quando i killers neri con le loro falci si calano come teleferiche nel canyon dove stanno fuggendo i nostri cowboy. O quando Gong Li attraversa come una tigre una sfilza di saloni rossi per scoprire la tresca fra il suo figliastro-amante e la di lui sorella (ma loro ancora non lo sanno) Chan, la quale si nasconde in un armadio ma, sotto i nostri occhi e quelli dell’imperatrice, ritira lentamente la sua lunga cintura viola che era rimasta fuori.. O anche il disfarsi delle maschere regali e insieme lo sciogliersi dei lunghi capelli neri della coppia imperiale alla fine della tragedia.

 

Ma non mi si venga a dire che questo è cinema (di quello che resta oltre una serata). Né che Zhang Yimou aveva qualcosa da dire. Né che noi non possiamo capirlo perché non siamo cinesi. Forse voleva dimostrare che anche loro possono fare Alessandro Magno o i 300 di Leonida come a Hollywood? C’è riuscito. O, più ambiziosamente, voleva dipingerci un imperatore cinese (forse il primo che unificò la Cina dopo l’anarchia dei “Regni combattenti”?) come il suo omologo Ivan il Terribile di Eisenstein? Magari con un messaggio segreto, come là contro Stalin, qui contro il  regime di Pechino. Ma per rispondere a questa domanda, a parte che ci sia o no riuscito, ebbene allora bisognerebbe proprio essere cinesi. E di quelli nonconformisti.

" La Città Proibita " di Zhang Yimou (1)

” La Città Proibita ” di Zhang Yimou

Recensione di Antonella Mancini

Sublime “lei”, Gong Li, l’Imperatrice. Sublime “lui”, Chow Yun Fatt, l’Imperatore, anche se un filo di meno: la sua parte è quella di un tipo tutto d’un pezzo, a differenza di quella ben più difficile della consorte, sfaccettata e complessa. E poi? Abbondanza sontuosa di ori, sete, broccati, velluti (rossi e gialli); straripamenti di truppe rutilanti in armatura (quali in oro, quali in argento, entrambe centuplicate dai servigi grafici del computer); presenza inquietante di Black Bloc volanti e muniti di falcetto; intrighi con improbabili scoppi di passioni retrodatate, ovviamente con incesti e tanto di veleno servito in deliziose coppette di vetro verde (ma dove le hanno pescate?). E sangue: tanto! Voli: tantissimi, questa volta anche coi fili a vista (veri e propri verricelli: unica avara concessione all’autoironia). Scene incalzanti in un’atmosfera a dir poco claustrofobica: la Città Proibita, quando non è un susseguirsi di corridoi e di soffocanti locali senza finestre, rigorosamente foderati di drappi trasudanti sfarzo e opulenza, è un fondale da videogame deserto o desertificato, dove dal nulla si immettono i personaggi, per poi sparire di botto così come sono comparsi. Le scene all’aperto, pochissime, si svolgono al buio. Direi che questa atmosfera rarefatta e irreale è la parte più riuscita del film. Film che peraltro in quanto tale non c’è. Non esiste, se non come giustapposizione di scene spettacolari alternate agli intensi primi piani delle due superstar internazionali: Gong Li, nella parte della Regina Madre, ancor giovane ed appetibile e il fascinosissimo Chow Yun Fatt. Praticamente, il “film” lo tengono in piedi loro due. Invece i tre figli, bruttotti e insipidi, fanno la fine che si meritano e muoiono enfaticamente annegati nel loro stesso sangue. Sullo sfondo: palline gialle che sembrano tanti batuffoli di cotone e sono invece i canonici crisantemi della tradizione cinese. Ma dov’è il film? La domanda è legittima, e si ripropone a intervalli periodici durante la visione perché, a dirla tutta, questa spettacolarità senza apparente tregua, questo primato del “vedere”, questa apoteosi dell’estetismo fine a se stesso, questo formalismo esasperato sono in verità di una noia mortale. In Liguria diciamo “un ciappone” (trad. lett.: lastrone di lavagna praticamente inamovibile). E ora un po’ di moralismo alla vecchia maniera. Non che voglia rispolverare il tanto (a mio avviso ingiustamente) vituperato ” messaggio” ma, accidenti a Zhang Yimou, si può sapere cosa vuole dire lui come regista al suo pubblico? Perché qualcosa avrà pure voluto dire, no? Magari senza volerlo. Magari! Perché a fronte di una padronanza magistrale del mezzo cinematografico (al limite di una fastidiosa e compiaciuta sofisticatezza), stanno l’inesistenza della sceneggiatura e la povertà delle idee, che minacciano un degrado proprio del mezzo filmico e proprio nel momento della sua massima esaltazione tecnica: un bel paradosso! Poco sembrano importare a Zhang Yimou i destini umani delle persone comuni – gialle o rosa che siano – quelle che mantengono con fatica e lavoro la pletora di cortigiani del film, capaci solo di tessere intrighi e cambiar d’abito (impresa peraltro impegnativa, che occupa chilometri di pellicola ed energie degli attori, data l’invadenza delle sia pur bellissime e preziosissime vesti). Poco gli importano insomma i destini di quelli come noi. Non si venga a dire infatti che le vicende dei protagonisti e il modo in cui sono trattate rispecchino alcunché in cui potersi riconoscere o abbiano a che fare coi famosi “universali”, o inducano a esercitare l’arte del pensiero. Moralistico? O.k. Forse. Tuttavia inutilmente cercheremmo di ravvisare ne La Città Proibita una parabola o una metafora, chessò, del Potere? Neanche per sogno. Quella c’era in The Banquet, film decisamente di regime (impropriamente “venduto” a Venezia 2006 come l’Amleto cinese), ma chiaro su questo punto. Potrebbe allora trattarsi di una versione asiatica dei drammi a noi più vicini degli Eschilo e dei Sofocle? O una vicenda intimista che tocca le corde profonde del cuore e agita le viscere? Né l’uno né l’altro: manca di spessore per entrambe. Allora un business? Forse. Senz’altro il film non mancherà di piacere alle acritiche platee della gioventù emergente cinese (e non).Una cosa però fa riflettere, e cioè il recente fenomeno di una sorta di ridondanza di film storici sulla Cina. Da un po’ di anni a questa parte infatti non c’è festival che non ne proponga almeno uno e sempre come evento straordinario assolutamente da non perdere. Si tratta regolarmente di film bellissimi e curatissimi sul piano visivo quanto poverissimi sul piano dei contenuti. Come se lo sdoganamento del passato pre–comunista, – come se il ripescaggio della Storia dall’oblio in cui era stata relegata da Mao & C. – potesse avvenire solo attraverso gli aspetti più effimeri e stupidi, nel disprezzo totale dei problemi reali, alla soluzione dei quali, nel bene come nel male, la Cina ha saputo legare per secoli la propria grandezza e la propria continuità culturale. Evidentemente, la cancellazione della “memoria storica” non è un problema solo nostro. E si potrebbe continuare col piagnisteo del repertorio “di sinistra” e il suo corteo di lacrime d’ufficio. Stop. Fine. Resta – solitaria e inevasa – la domanda: Che senso ha questo (brutto e inutile) film? E… a voler esser pignoli: cosa aggiunge e cosa toglie alla storia del cinema?