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VENEZIA 2008: " Plastic City – Dangkou " di Yu Lik (2008)

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2008

(c) Biennale di Venezia

 

Note da VENEZIA
di Antonella Mancini
 

" Plastic City – Dangkou " di Yu Lik (2008)

 

 

Yuda è un immigrato cinese riuscito nel corso degli anni a costruire una sorta di impero sui traffici illegali, facendo di uno dei rioni più degradati di San Paolo del Brasile il proprio quartiere generale. Da qui controlla e gestisce, insieme col giovane e fascinoso figlio adottivo Kirin, il proprio potere, che si basa sul monopolio delle merci taroccate e il cui motto è “soldi veri e merce falsa”. Ma i giochi di nuove alleanze tra politici e mafie minacciano questa supremazia. I nuovi poteri criminali emergenti suggeriscono a Yuda e Kirin una “pausa” di attività per compiacere il governo e gli americani mentre per il prosieguo propongono di inglobare nel loro giro di affari anche la merce “vera“, quella delle cosiddette eccedenze (il cui meccanismo ci ha illustrato così bene Saviano in Gomorra). I due si adeguano alla prima richiesta ma rifiutano di rinunciare ai criteri su cui hanno costruito la propria fortuna, segnando in questo modo l’inizio del loro declino. Si arriva all’arresto di Yuda, alle fughe, alla vendetta di Kirin per riscattare l’onore paterno. Yuda, stanco di lotte e di sangue si finge morto e ritorna nella foresta amazzonica da cui era partito nei suoi anni giovanili. Kirin, più volte sul punto di morire e ormai ombra di se stesso, si mette alla sua ricerca. L’incontro dei due nella giungla è drammatico: il padre si lascia cadere sul machete che Kirin ha in mano e (si suppone) muoia.
Questa è, sulla carta, la ricostruzione lineare del film – la storia e i temi – di indubbia attualità e interesse anche per noi italici, ma è una ricostruzione fatta a tavolino mettendo insieme pezzi di articoli e commenti raccolti qui e là. Quello che invece vede lo spettatore, ammesso che riesca a capire cosa sta veramente succedendo sullo schermo, è un’altra cosa. Il film è infatti un gran casino che mescola tutto il mescolabile. A parte la droga, stranamente assente, c’è di tutto: sesso a luci rosse, violenza e botte più o meno gratuite, corruzione, tradimenti, paciughi sentimentali poco credibili e via di questo passo. Il film partirebbe bene (con qualche caduta di gusto nella sigla): immagini forti e veloci e un commento musicale che cattura immediatamente lo spettatore; a seguire – ed incomincia la confusione – vari sketch che vorrebbero immettere lo spettatore nella vita dei due protagonisti, mostrando quanto sono ben radicati nella realtà di un quartiere che li ama. I protagonisti ne escono invece come figure abborracciate e improbabili: troppo seduttivo e buono e forte e nobile il “bastardo” Kirin, troppo sentimentale e ondivago il boss nonché padre adottivo Yuda. Ci si chiede come abbiano potuto tenere in pugno un quartiere e un traffico così impegnativo per tanto tempo. Se poi ci mettiamo l’intermezzo in cui i ragazzi delle favelas imitano il wuxiapian sommato alle scene della selvaggia foresta amazzonica con tanto di tigre, ce n’è abbastanza per uscire shakerati dalla visione del film. Un film che ammicca alle ultime mode cinematografiche e ne rimane vittima.